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Ambiente

Abete bianco d’Appennino: una possibile assicurazione per la resilienza delle foreste nel cambiamento climatico

Un nuovo interessante studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Dendrochronologia, ha indagato le popolazioni di abete bianco del Parco Nazionale dell'Appennino Tosco-Emiliano. I risultati sono un prezioso contributo per incrementare la resilienza delle foreste alla crisi climatica: gli abeti bianchi d'Appennino, caratterizzati da una straordinaria variabilità genetica, potrebbero rappresentare un'assicurazione per la conservazione di questa specie anche sulle Alpi

di
Luigi Torreggiani
28 marzo | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

L’abete è l'albero simbolo delle Alpi. Tutti siamo portati ad associare i boschi dalle chiome coniche e sempreverdi ai paesaggi delle Dolomiti o ad altri panorami dominati dalle aguzze vette della catena alpina. Ma c’è abete e abete e, anche se in misura minore, si tratta di “una questione” anche appenninica.

 

Non bisogna innanzitutto confondere l’abete rosso - Picea abies - e l'abete bianco - Abies alba: due specie diversissime, anche se possono essere confuse da occhi non esperti. Entrambe queste specie si ritrovano con molta più abbondanza sulle Alpi ma, in particolare per quanto riguarda l’abete bianco, la presenza in Appennino riveste una notevole importanza, a maggior ragione oggi, in un’epoca caratterizzata dalla crisi climatica.

 

L’abete bianco era un tempo naturalmente presente lungo tutto l’Appennino, in popolamenti misti al faggio, specie che oggi domina incontrastata l’alta montagna dalla Liguria alla Calabria. La sua presenza è diminuita drasticamente nell’ultimo millennio soprattutto per cause antropiche, ma alcuni nuclei naturali sono rimasti, come piccole isole sempreverdi all’interno del mare della faggeta. Altri popolamenti sono stati invece piantati dall’uomo nei secoli, come ci ricordano, ad esempio, le vicende storiche dei monaci Camaldolesi e Vallombrosani.

 

Oggi la presenza dell’abete bianco in Appennino, seppur non molto estesa in termini di superficie, è straordinariamente importante per un motivo che in tanti tendiamo ad ignorare: l’enorme variabilità genetica. Si tratta di un lato un po’ nascosto della “biodiversità”, che spesso tendiamo erroneamente ad associare soltanto all’abbondanza di specie diverse. La biodiversità è invece anche da ricercare all’interno degli individui della stessa specie: come ciascuno di noi è diverso dai propri amici, colleghi e vicini di casa, così avviene anche per gli alberi, anche se a occhio possono sembrarci identici. Ogni albero è diverso dall’altro e ogni popolazione ha delle caratteristiche differenti dalle altre, anche se si tratta sempre di boschi di faggio, di castagno o di abete bianco. Caratteristiche plasmate nel tempo, lungo il cammino dell'evoluzione che va di pari passo a quello del clima.

 


Nucleo di abeti bianchi autoctoni nei pressi dei lago Verde (Val Parma, Appennino Tosco-Emiliano). Foto di Andrea Piotti.

 

“Da un lato l’abete bianco in appennino è estremamente importante perché in alta quota rappresenta una delle poche opzioni per diversificare un ecosistema che attualmente è molto semplificato”, spiega Andrea Piotti, genetista forestale del Cnr - Consiglio nazionale delle ricerche, “immaginate se il faggio andasse in crisi, per qualsiasi motivo: buona parte dei boschi dell’Appennino rimarrebbero senza ruote di scorta”. Ma c’è un altro motivo che fa dell’abete bianco appenninico una specie molto attenzionata dai ricercatori di tutta Europa: “Le popolazioni appenniniche di questa specie hanno una diversità genetica incredibile, molto più alta di quelle alpine”, spiega ancora Piotti, “e in questa diversità è possibile trovare delle soluzioni per aiutare i nostri boschi ad essere più resilienti alla crisi climatica. Non a caso, anche tra i colleghi d’oltralpe c’è grande attenzione per lo studio delle provenienze appenniniche di questa specie”.

 

Abbiamo contattato Andrea Piotti per parlare di questo tema a seguito di un annuncio importante: l’uscita di un nuovo studio sui boschi di abete bianco del Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano sulla prestigiosa rivista Dendrochronologia. Lo studio è stato condotto con la collaborazione del Parco e insieme ad altre colleghe e colleghi forestali, tra cui Silvio Oggioni, ricercatore dell’Università di Milano.


Nucleo di abeti bianchi autoctoni nei pressi del Monte Orsaro (Appennino Tosco-Emiliano). Foto di Andrea Piotti.

 

“Anche gli alberi migrano, e lo fanno attraverso i loro semi”, ci ha spiegato Oggioni, “il cambiamento climatico però fa sì che alcuni semi non trovino più il clima giusto per germinare dove lo hanno sempre fatto, potendo invece svilupparsi in nuovi territori, ad esempio più a nord o più in alto. Ma se il cambiamento del clima è troppo veloce, le specie non fanno in tempo a stare al passo: i semi non viaggiano abbastanza velocemente da assicurare una migrazione completa”. 

 

Da questo problema una possibile soluzione, molto dibattuta in tutto il mondo, che tecnicamente viene chiamata “migrazione assistita”: gli alberi possono essere “accompagnati”, piantandoli in siti climaticamente favorevoli o introducendo in altri contesti alberi che si sono evoluti in zone diverse, con caratteristiche genetiche idonee al clima del futuro. Un esempio? L'abete bianco dell'Appennino, che potrebbe, nel clima del futuro, vegetare sulle Alpi potenzialmente molto meglio di quello locale

 

“Il nostro studio dimostra che conoscere la capacità adattativa delle diverse provenienze geografiche delle specie forestali significa poter programmare strategie di gestione forestale che assistano la migrazione delle foreste verso climi più adatti, affiancando la rinnovazione naturale del bosco con l'impianto artificiale di materiale forestale più resistente alla siccità”, spiega ancora Oggioni, “allo stesso tempo, è importante però mantenere nelle foreste un’alta diversità genetica, che garantisce l'adattabilità, conservando i popolamenti naturali di abete bianco specialmente dove il loro patrimonio genetico è più raro o eterogeneo”.

 


Il team di ricerca durante i campionamenti. Foto di Andrea Piotti.

 

Nel Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano i ricercatori hanno ricostruito, attraverso analisi genetiche e lo studio degli anelli di accrescimento degli alberi (la dendrocronologia) l’origine di alcune storiche piantagioni artificiali di abete bianco.

“Abbiamo scoperto che nell’area in esame c’erano gruppi di abeti bianchi diversissimi tra loro: alcuni locali, alcuni di provenienza meridionale, altri invece di origine alpina, delle Alpi occidentali”, spiega ancora Andrea Piotti, “attraverso lo studio siamo riusciti a dimostrare che gli abeti che meglio hanno resistito agli stress climatici sono stati quelli di provenienza locale e meridionale. Le provenienze alpine sono andate invece in crisi in modo molto più marcato, in particolare nelle annate siccitose. Grazie a studi come questo possiamo quindi individuare quali provenienze utilizzare per le piantagioni future, in modo da renderle più resistenti alla siccità, aiutando così la resilienza delle nostre foreste alla crisi climatica”. 

 

Piotti e Oggioni ci tengono a precisare che il tema della “migrazione assistita” è tuttavia molto delicato: un singolo lavoro di ricerca non può certo portare a conclusioni e “ricette” assolute e questa tecnica non è necessariamente valida per tutte le specie, alcune infatti potrebbero “farcela da sole”. Ma sono proprio studi come questo che ci aiutano a conoscere meglio i segreti delle nostre foreste, permettendoci di prepararci ai possibili scenari futuri e a comprendere meglio dove e quando sarà necessario un aiuto da parte nostra per aiutare le specie a migrare.  

 

E poi, diciamoci la verità: è bello sapere che i pochi, vessati e sconosciuti abeti bianchi d’Appennino potranno dare un grande aiuto ai più famosi “cugini” delle Alpi: una gran bella rivincita!

 

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