5 anni, 13 paesi di provenienza e quasi 50 ghiacciai analizzati per capire come la vegetazione colonizza il terreno liberato dal ritiro dei ghiacciai
La ricerca portata avanti da un team di ricercatori di 13 paesi diversi sulle modalità con cui la vegetazione colonizza i terreni lasciati liberi dai ghiacciai a seguito del loro ritiro è recentemente stata pubblicata su Nature Plants. Mauro Gobbi, ricercatore del Muse e parte del team ci racconta i risultati principali
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Uno studio internazionale condotto su 46 ghiacciai sparsi su tutto il globo, dai poli ai tropici, è recentemente stato pubblicato su Nature Plants. La ricerca, compiuta congiuntamente da ricercatori e ricercatrici di 13 diversi paesi, aiuta a comprendere la modalità con la quale la vegetazione colonizza i terreni lasciati liberi dai ghiacciai a seguito del loro ritiro. Nella cordata di istituti di ricerca sono presenti anche il Muse, museo delle scienze di Trento e l’Università Statale di Milano.
La fusione dei ghiacciai sta comportando un cambiamento radicale nella fisionomia del paesaggio, soprattutto sulle Alpi, e uno degli effetti di tale cambiamento, facilmente osservabili nella frequentazione delle terre alte, è la colonizzazione da parte della vegetazione delle aree che vengono liberate dal ritiro dei ghiacci. “Questo lavoro rientra all'interno di un progetto molto ampio che è iniziato ben cinque anni fa, ice communities, con l’obiettivo di studiare la biodiversità che vive nelle aree che vengono liberate dai ghiacciai man mano che si ritirano - spiega Mauro Gobbi, ricercatore dell’Ufficio Ricerca e collezioni museali, Ambito Clima ed Ecologia del Muse - quindi capire come gli organismi viventi colonizzano queste aree nel tempo e nello spazio, e conseguentemente comprendere uno dei grandi cambiamenti legati al surriscaldamento globale”.
L’originalità del progetto sta nell’aver “preso in considerazione tanti ghiacciai, perché ogni ghiacciaio di per sé racconta una storia differente in relazione all'area geografica nella quale si trova”. Infatti nel corso del progetto i ricercatori sono riusciti a studiare quasi 50 ghiacciai in tutto il globo, “da ghiacciai in climi temperati a ghiacciai vicino ai poli o ancora in aree subtropicali o tropicali”, di cui due vedrette nelle Dolomiti di Brenta, il ghiacciaio del Sorapiss nelle Dolomiti bellunesi e il ghiacciaio dei Forni in Lombardia.
La ricerca presenta anche un altro aspetto innovativo infatti “al posto di andare, come si fa tradizionalmente, sul sito con un botanico per identificare le piante, un entomologo per studiare gli insetti, un altro professionista per identificare i batteri e così via, abbiamo raccolto campioni di suolo da portare poi in laboratorio, per estrarre il dna degli organismi che vivono o sono vissuti fino a poco tempo prima all'interno di quel terreno”. Questo metodo è molto vantaggioso perché permette di essere notevolmente più rapidi e soprattutto di aver bisogno di un numero minore di professionisti per ogni prelievo di campioni, permettendo di ottenere “una descrizione molto più compiuta e articolata della biodiversità che vive in queste aree”. Le zone oggetto di questi studi, in gergo tecnico, si chiamano piane proglaciali e sono proprio quelle che si formano di fronte al ghiacciaio con il suo arretramento e per i ricercatori sono un vero e proprio “laboratorio all'aria aperta”.
“Siamo riusciti a dimostrare che le comunità di piante variano velocemente nel tempo e tale variazione è guidata sia da rapporti di competizione che si instaurano tra di esse, ma anche da rapporti di facilitazione che l’una esercita sull’altra nel colonizzare i terreni deglacializzati da pochi anni” spiega il ricercatore.
Ciò che emerge è una modifica sostanziale della biodiversità degli ambienti di alta quota glaciali “la prospettiva che è emersa è quella della perdita importante delle specie criofile (quelle che hanno l’ambiente glaciale come habitat) indipendentemente dal loro essere animali o vegetali a vantaggio di altre specie che definiamo più generaliste, quelle che hanno minori esigenze ecologiche e quindi si riescono ad adattare un po' bene a tutte le tipologie di clima e di habitat”.
Il risultato complessivo è “una perdita di biodiversità, perché nonostante, la biodiversità negli ambiti d'alta quota aumenti, con la migrazione verticale della biodiversità che si trovava a bassa quota, ma questa accade a discapito delle specie criofile e quindi il computo totale risulta in una perdita di biodiversità, che a sua volta determina una banalizzazione dell'ecosistema”.
Gobbi racconta che spesso utilizza una metafora per spiegare la biodiversità: “Dobbiamo immaginare la biodiversità come una rete, se iniziamo a tagliare le maglie - fuori di metafora, a eliminare specie - la rete si indebolisce”. La perdita di biodiversità, in sostanza, indebolisce il meccanismo di funzionamento degli ecosistemi.