Arrampicata sempre più pop. Le vie schiodate in Val d'Adige impongono delle riflessioni: "Negli ultimi anni, il dibattito nel mondo verticale si sta trasformando in una guerra di fazioni"
Tra schiodature, richiodature, inviti ai climbers a "tornarsene a casa" e messaggi lasciati ai piedi delle pareti, nelle ultime settimane si è parlato molto delle pareti in Val d'Adige. Questa vicenda, che a uno primo sguardo sembra avere un respiro locale, in realtà invita a sviluppare delle considerazioni sul futuro di un'attività (l'arrampicata) di anno in anno più popolare. A tal proposito ci è stata segnalata una riflessione stimolante che riportiamo integralmente
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Tra schiodature, richiodature, inviti ai climbers a "tornarsene a casa" e messaggi lasciati ai piedi delle pareti, nelle ultime settimane si è parlato molto delle pareti in Val d'Adige (ne abbiamo scritto QUI, QUI e QUI). Questa vicenda, che a uno primo sguardo sembra avere un respiro locale, in realtà invita a sviluppare delle considerazioni sul futuro di un'attività (l'arrampicata) di anno in anno più popolare. Pertanto - scrivevamo - attriti di questo tipo probabilmente si verificheranno con maggiore frequenza: tra climbers e comunità locali, spesso minute e impreparate ad accogliere improvvisamente decine di persone, ma anche tra climbers e... climbers, perché la frequentazione massiva di un luogo (in questo caso verticale), com'è risaputo rischia di ridurre il valore dell'esperienza e di generare malcontento. Per questo motivo è sempre più urgente aprire la via al dialogo per costruire il futuro di un'attività in rapida evoluzione.
A tal proposito, ci è stata segnalata una riflessione stimolante, pubblicata da Guido Lanaro sul gruppo Facebook Arrampicata in Val d'Adige. Convinti nell'importanza della discussione la riprendiamo qui di seguito:
"Ho seguito con scarso entusiasmo le recenti vicende legate alle vie dei Tessari, un angolo della Val d’Adige che frequento poco e per cui nutro un interesse limitato. Tuttavia, queste vicende offrono lo spunto per alcune riflessioni generali sulle recenti schiodature e richiodature.
Nel 2019, insieme ad alcuni amici, promuovemmo l’appello TTT - Togliere, togliere, togliere. Era un testo provocatorio, ma fondato su esperienze alpinistiche e di attivismo che sostanzialmente proponeva delle riflessioni di carattere ecologico legate alle attività alpinistiche e arrampicatorie. L’appello mirava a stimolare un dibattito costruttivo sugli stili e le modalità di frequentazione di rocce e pareti, tenendo conto delle conseguenze della crescente popolarità delle attività alpinistiche.
A Illasi, il 6 aprile 2019, si tenne un confronto aperto che coinvolse numerosi alpinisti, anche da fuori regione. Nonostante l’intento inclusivo, le reazioni furono spesso scomposte: accuse di estremismo, elitismo, anacronismo e commenti denigratori sui social. Parteciparono esponenti della LAAC, guide alpine, chiodatori, istruttori, accademici e semplici alpinisti collinari del weekend come me. Non parteciparono invece coloro che, nello stesso periodo, erano impegnati a mitragliare di spit le pareti dei Tessari e di altre zone della Val d’Adige. Sui social non risparmiarono sberleffi, sfottò e perfino qualche minaccia (“Se toccano le nostre vie li battiamo come cachi”, cito a memoria).
Questo atteggiamento mi sembra tuttora particolarmente grottesco se si considera che molti di questi critici erano istruttori del CAI, e che l’appello TTT si richiamava esplicitamente al Bidecalogo del CAI e alle tavole di Courmayeur, documenti che dovrebbero essere ben conosciuti da chi occupa tali ruoli.
Negli ultimi anni, mi sembra che il dibattito nel mondo verticale si sia trasformato in una guerra di fazioni, in cui le neonata APS si è spesso distinta come la più belligerante e la più invasiva. La Val d’Adige si è trasformata in una specie di tabellone di Risiko dell’arrampicata: guide, chiodature, schiodature e richiodature sono diventati strumenti di conquista, con l’obiettivo di imporre una visione e marginalizzare le posizioni dissidenti. La retorica di questo tipo di discorsi è spesso piuttosto eloquente. Senza addentrarmi troppo nel merito: leggere che il Sengio Rosso viene richiodato per evitare che “cada nel dimenticatoio” fa sorridere, visto che nei weekend in cui ci si può scalare c’è la fila sotto a tutte le vie storiche. Come fa sorridere l’ossessione a contare le ripetizioni delle vie e utilizzare la popolarità come metro di giudizio di un intinerario (una volta le vie famose erano quelle che nessuno saliva, ma tant’è).
Questa dinamica si riflette in due problemi principali.
Il primo è che la progressiva banalizzazione degli itinerari, fatta di chiodature ravvicinate, accessi facilitati e una ricerca ossessiva di sicurezza, rende le pareti sempre più simili a palestre a cielo aperto. Questo fenomeno ricalca, fatte le dovute proporzioni, quanto avvenuto sulle Dolomiti, con sentieri trasformati in autostrade e rifugi in alberghi.
Il secondo è la miope abitudine a considerare ogni spazio come un vuoto da riempire, e di conseguenza chi riempie vuoti come una specie di paladino, e gli ormai pochi che quanto meno si interrogano, come una specie di colonna infame. Nella zona dei Tessari mi pare che questo impulso si sia manifestato in modo feroce, al punto quasi di disboscare e scavare pur di trovare qualche metro quadrato di pietra da attrezzare.
L’argomento più comune contro le suddette obiezioni è: “Che cazzo te ne frega? Fai a meno di fare le vie”. Questo ragionamento purtroppo ignora il fatto che lo stesso stile viene ormai spesso esportato anche su vie classiche o storiche, dove vengono aggiunti chiodi e cordini, e chi si permette di ripristinare le suddette vie allo stato originario (in cui sono state salite per decenni da centinaia di alpinisti) viene praticamente accusato di terrorismo.
Salire le pareti ed appendersi alle rocce ha sempre e comunque delle conseguenze, che lo si faccia in un modo o in un altro. Alla luce della crescente popolarità dell’alpinismo, queste conseguenze richiedono una riflessione collettiva. Alimentare la polarizzazione, invocare interventi di Luca Zaia, dei carabinieri o della magistratura, o ancora soffiare sul fuoco della mob mentality servirà solo a inasprire i toni di un confronto non più procrastinabile e a renderlo più difficile e doloroso".