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Alpinismo

Il Nanga Parbat di Reinhold Messner: un'Odissea segnata da maldicenze e pettegolezzi; un colpo inflitto a chi specula sulle disgrazie altrui

Il 27 giugno 1970 i fratelli Messner raggiunsero la vetta del Nanga Parbat. Un rapido sorriso, prima di giorni tragici e anni segnati da maldicenze e pettegolezzi

di
Pietro Lacasella
27 giugno | 10:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Il 27 giugno 1970 i fratelli Messner raggiunsero la vetta del Nanga Parbat. Un rapido sorriso, prima di giorni tragici e anni segnati da maldicenze e pettegolezzi.

 

Per comprendere certe dinamiche è necessario svestirsi dei propri abiti e provare a indossare, almeno con l’immaginazione, quelli altrui.

 

Hai appena raggiunto la vetta del Nanga Parbat. Ad accompagnarti c’è tuo fratello, Günther. Siete la terza cordata ad avere la fortuna di toccare la cima. La prima a farlo salendo il versante Rupal. Ma ormai è sera e la gioia svanisce in fretta. I festeggiamenti sono rimandati a valle. Prima è necessario sistemarsi alla bell'e meglio per bivaccare. È infatti troppo tardi per scendere; è quasi impossibile farlo senza corde fisse e con l'arrivo del maltempo. Per questo motivo, il giorno seguente decidete di perdere quota servendovi di un altro versante, apparentemente meno aspro: il Diamir.

 

La discesa è ormai finita quando, all'improvviso, si stacca una lingua di neve. Tuo fratello scompare. Muore. Rimani solo e devi improvvisare. Il peso dell’angoscia ti schiaccia lo sterno, lo opprime rendendo l’aria ancora più rarefatta. Ma se vuoi sopravvivere devi resistere alla tristezza, devi scontrarti con la paura. Combatterla a colpi di ramponi e piccozza. È una battaglia infinita. Alienante. Perdi la concezione del tempo. Sei inciampato in un girone dantesco e ora devi ripetere sistematicamente le stesse operazioni per non rimanere intrappolato tra roccia e ghiaccio, per difenderti dal freddo, per scacciare il tormento del fratello lasciato lassù. Se, prima, la montagna ti affascinava, ora la odi. Ne sei nauseato.

 

Tutti ti credono morto. Tu invece compari a valle sei giorni più tardi. Ti accasci a terra, come Ulisse appena naufragato sull’isola dei Feaci: la tua barba non è incrostata di salsedine, ma di cristalli di ghiaccio. Ad attenderti, tuttavia, non trovi Nausicaa. Non trovi un popolo pronto ad accoglierti. A capirti. A rispettare il tuo dolore rimanendo in silenzio. 

No.

Ad aspettarti sono i curiosi, gli scettici, gli invidiosi. L’alpinismo a volte è un ricettacolo di super-competitivi. Così ogni scusa è buona per affossare il rivale con illazioni, congetture e ipotesi maliziose.

 

Questo accadde a Reinhold. Accusato di aver abbandonato il fratello nei pressi della vetta durante quella tragica ritirata.

 

35 anni dopo fu trovato, ai piedi dello Sperone Mummery (4600 metri circa), uno scarpone di Günther. La prova pose fine a ogni dubbio, confermando la versione di Reinhold. 

 

Nel 2022, dopo 52 anni, il ghiacciaio ha deciso di restituire il secondo scarpone di Günther. Il ritrovamento non aggiunge nulla di nuovo, ma è un ulteriore colpo inflitto a chi si espone non tanto per amore di verità, ma per speculare sulle disgrazie altrui. 

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