Il celebre e drammatico bivacco, a oltre 8100 metri, di Bonatti e Mahdi: un racconto necessario per comprendere la prima ascesa del K2
Domani ricorre il settantesimo anniversario della prima scalata del K2. La spedizione italiana, guidata da Ardito Desio, salì in vetta con Achille Compagnoni e Lino Lacedelli il 31 luglio 1954. Probabilmente non si sarebbe potuto parlare di impresa senza il determinante apporto di Walter Bonatti e dell’hunza Amir Mahdi, la cui azione culminò in un bivacco all'addiaccio (non certo da loro desiderato) su cui si è scritto e parlato molto negli anni a venire.
Alessandro Filippini, giornalista che ha per anni scritto di alpinismo per la Gazzetta dello Sport, oltre che autore di film e libri sulla storia dell’alpinismo, ricostruisce quei drammatici momenti
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Domani ricorre il settantesimo anniversario della prima scalata del K2. La spedizione italiana, guidata da Ardito Desio, salì in vetta con Achille Compagnoni e Lino Lacedelli il 31 luglio 1954. Probabilmente non si sarebbe potuto parlare di impresa senza il determinante apporto di Walter Bonatti e dell’hunza Amir Mahdi, la cui azione culminò in un bivacco all'addiaccio (non certo da loro desiderato) su cui si è scritto e parlato molto negli anni a venire.
Alessandro Filippini, giornalista che ha per anni scritto di alpinismo per la Gazzetta dello Sport, oltre che autore di film e libri sulla storia dell’alpinismo, ricostruisce quei drammatici momenti:
"In queste ore 70 anni fa sul K2 Walter Bonatti e l’hunza Amir Mahdi (o Mehdi) stavano per vivere la loro più tremenda avventura: un bivacco all’addiaccio nella notte, a quota 8100 e più metri, sulla ripida pendenza del Collo di Bottiglia, sotto l’incombente e terrificante massa ghiacciata del Grande Seracco.
Erano arrivati fino a lì portando in spalla i pesanti basti con tre bombole ciascuno (circa 19 chili a testa), destinate a consentire il tentativo di vetta della cordata di punta della grande spedizione italiana ideata e guidata dal professore Ardito Desio.
Negli anni Cinquanta si pensava impossibile riuscire a salire a quota 8600 metri senza l’aiuto dell’ossigeno supplementare. Per questo la spedizione era dotata di una ottantina di bombole, affidate alle cure di Erich Abram, fortissimo alpinista bolzanino, che era salito insieme a Bonatti e Mahdi fino al tramonto. A quota 8000 aveva deciso di rientrare a campo 8 per un inizio di congelamenti ai piedi e soprattutto perché per la seconda volta nel pomeriggio c’era stato un contatto vocale con i due compagni che in quella giornata erano saliti con la piccola tenda per un campo IX minimale, da dove lanciare il tentativo di vetta.
Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, però, non si erano mai fatto vedere. Per questo, pensando che comunque dovevano essere vicini, Bonatti aveva voluto proseguire, insieme a Mahdi, per portare fino a loro le bombole come da accordi della sera precedente presi in tenda a campo VIII.
Bonatti era convinto (o forse semplicemente voleva sperare) che la tendina, restava invisibile solamente perché nascosta da una grande roccia sulla sinistra del Collo di Bottiglia.
Il problema era però legato alla quota in cui la tendina doveva trovarsi, perché ormai lui e Mahdi erano ben oltre gli 8000 metri, mentre nella notte precedente, a campo VIII (7630 metri), l’accordo con Compagnoni e Lacedelli era stato che il campo IX venisse fatto più in basso di quanto originariamente previsto, quindi a 7900 metri o poco più. Perché il giorno prima le famose bombole non erano state portate fino a campo VIII, ma erano rimaste poco sopra campo VII (7350 metri) e Bonatti si era sì offerto volontario per scendere a recuperarle, ma tutti avevano capito che scendere di 200 metri di dislivello e risalirne in giornata più di 500 con quei 19 chili sulle spalle sarebbe stato difficilissimo se non impossibile.
Infatti Bonatti e Mahdi erano arrivati nel Collo di Bottiglia col buio già incombente, e urlavano invano i nomi dei due compagni dai quali speravano di avere una indicazione che li aiutasse a individuare la tenda.
Bonatti salì ancora da solo, fino a quella grande roccia, solo per scoprire che la tenda non stava nemmeno lì.
La pendenza era sempre più proibitiva, soprattutto per Mahdi, fortissimo fisicamente, ma non preparato tecnicamente ad affrontare un passaggio che ancora oggi mette paura, se non preventivamente attrezzato da esperti Sherpa.
Così l’italiano, che era il più giovane della spedizione, 24 anni appena compiuti, e l’hunza che un anno prima era stato al Nanga Parbat e aveva aiutato Hermann Buhl a raggiungere il campo base dopo la sua folle prima salita solitaria, non ebbero altra scelta che prepararsi a una lunga e allucinante notte, seduti uno accanto all’altro su uno stretto gradino che Bonatti aveva ricavato nel ghiaccio a furia di colpi di piccozza.
Fu solamente molto più tardi, a notte ormai scesa, prima che si scatenasse l’immancabile tempesta, che i due disperati videro una luce accendersi più in alto e alla loro destra, fra le rocce a sinistra del Collondi Bottiglia e sentirono la voce di Lacedelli che chiedeva se avevano portato le bombole.
Quindi i due lassù sapevano che Bonatti e Mahdi erano saliti ed erano ancora non lontani. Ma non si erano fatti né sentire né tantomeno vedere.
Lacedelli però non rispose alle richieste di aiuto di Bonatti e agli urli disperati di Mahdi, ma disse loro solamente di lasciare lì le bombole e di scendere.
Nella notte e col gelo era ormai impossibile, soprattutto per Mahdi.
La luce si spense e così fino all’alba continuò l’incubo di due uomini bloccati in uno dei punti più pericolosi di tutti gli Ottomila.
Una notazione finale, tanto importante quanto dovrebbe essere superflua: Bonatti e Mahdi avevano portato le bombole ma non per sé: non avevano i respiratori, già negli zaini di Compagnoni e Lacedelli. Quindi Bonatti e Mahdi non potevano in alcun modo utilizzare e quindi non utilizzarono l’ossigeno supplementare.
Nelle fotografie in copertina Walter Bonatti ed Erich Abram a fine spedizione e i piedi di Amir Mahdi dopo le amputazioni per i congelamenti riportati a causa del bivacco all’addiaccio. Lui sì che aveva il diritto di mostrare quelle sue menomazioni. E comunque non le esibiva, perché lui conosceva il pudore".