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Alpinismo

I 10.000 prigionieri italiani sull'Himalaya che nessuno ricorda, ma un ufficiale si costruì di nascosto una macchina fotografica per documentare

All’ingresso tutto ciò che aveva venne sequestrato, ma in tasca gli rimase un rullino e così, sempre di nascosto, decise di costruire una macchinetta fotografica su misura, riesumando le cognizioni scolastiche di fisica

di
Chicco Magni
10 novembre | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Uno dei principali testimoni della prigionia dei 10.000 italiani sull'Himalaya durante e dopo la Seconda Guerra mondiale, l’unico ad avere realizzato un vero reportage fotografico all’interno del campo di concentramento di Yol, fu Lido Saltarmatini, milanese. Sottotenente agli ordini del generale Barberis, fu catturato dagli inglesi (in quel caso da un plotone di neozelandesi) dopo essere sopravvissuto all’inferno della battaglia di Tobruk nel gennaio del 1941.

 

Fu trasferito prima a Bangalore e, dopo un viaggio di 2.500 chilometri, il 3 aprile del 1942 varcò il cancello del campo di prigionia inglese nel bel mezzo dell’Himalaya indiano. Vi restò fino al 1946. All’ingresso tutto ciò che aveva venne sequestrato, ma in tasca gli rimase un rullino e così, sempre di nascosto, decise di costruire una macchinetta fotografica su misura, riesumando le cognizioni scolastiche di fisica.

 

«Una scatola metallica di sigarette Waltham’s, lo stagno ricavato da un tubetto di dentifricio McLeand’S, la candela avuta in prestito dal Cappellano con promessa solenne di restituzione una volta rientrati in Italia, il cannello ferruminatorio ricavato da una scatola di salsicce di soia, una lente minuta. Quest’ultima, elemento fondamentale, era sfuggita alle perquisizioni per la sua minuscola dimensione, quattro millimetri (la utilizzavo per la mia passione di collezionista di francobolli). La macchina fotografica c’era».

Per testimoniare quella storia quasi dimenticata Saltamartini conservò le fotografie realizzare come reliquie, affinché rimanesse almeno la memoria di quella storia incredibile. Un buco nero che inghiottì per anni 10.000 italiani nel fiore della loro giovinezza. Pubblicò quelle foto pensando soprattutto a chi come lui aveva vissuto quell’esperienza, ma anche a chi non ne sapeva assolutamente nulla o stentava addirittura a crederci. Ecco perchè quelle immagini scattate di nascosto, a distanza di 80 anni, rimangono una testimonianza preziosa.

 

«Il campo di Yol era sovrastato da monti innevati. Esso era disposto su una costa della montagna di elevata pendenza. Oltre il campo la vista sarebbe scorsa fino alle vette di seimila metri. Il campo aveva la capacità di ospitare circa 10.000 ufficiali italiani delle varie armi - scrive Saltamartini -. Senza un’attività si finiva lentamente in preda alla disperazione. E la disperazione poteva portare ad errori enormi, anche letali». Era indispensabile quindi impegnarsi, avere uno scopo, un traguardo. «Gruppi che si dedicavano a ricavare dal quel terreno scosceso e roccioso campi da tennis, calcio, bocce, pallavolo». Campi ricavati nella roccia, in buon parte con cucchiai e forchette. Ma ne valeva la pena. «Con il finire della guerra fu concessa gradualmente una libertà controllata.

 

Fu permesso di uscire dal campo, ma sempre entro certi limiti. Fu in quel periodo che i prigionieri alpinisti di Yol, diedero sfogo al loro bisogno di esplorare ciò che per tanto tempo avevano visto solo da lontano: le vette dell’Himalaya che li circondavano. Il viaggio di rientro dei 10.000 italiani ebbe inizio nel luglio del 1946. Salparono alla fine di luglio da Bombay.

 

«A metà di agosto, dopo circa venti giorni di navigazione, toccammo la nostra Terra, a Napoli. L’avevamo lasciata da ben sette anni.  Seicento di noi mancavano, rimasti in India. Per sempre».

 

Per chi fosse interessato, domani sera uscirà la seconda parte del racconto dedicata alle scalate dei prigionieri

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