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Alpinismo

“La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà”: dalle parole di Fabrizio De André alla vita di Walter Bonatti

Sono trascorsi tredici anni dalla morte di Walter Bonatti. Una ricorrenza che permette di ripensare a uno dei più grandi e amati alpinisti della storia, capace tutt'oggi di avere un'influenza sulla percezione sociale della montagna

di
Pietro Lacasella
13 settembre | 07:51
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Sono trascorsi tredici anni dalla morte di Walter Bonatti. Una ricorrenza che permette di ripensare a uno dei più grandi e amati alpinisti della storia, capace tutt'oggi di avere un'influenza sulla percezione sociale della montagna.

 

Non è semplice individuare il motivo di tanta popolarità. Certo: Bonatti ha compiuto imprese eccezionali, "epiche" volendo utilizzare un'espressione un po' vintage. Per scaltrezza e resistenza fisica, potrebbe ricordare Ulisse in versione alpina. 

Ma il talento non è una prerogativa sufficiente per guadagnare un’incondizionata ammirazione: molti altri alpinisti, infatti, seppur dotati di grandi capacità tecniche e atletiche, sono nel tempo scivolati tra gli anfratti più reconditi della memoria collettiva. 

 

Se anche in questa occasione Bonatti è riuscito a salvarsi dagli abissi, è soprattutto grazie alle sfumature umane che hanno sempre accompagnato le sue avventure sovraumane. Una caratteristica comportamentale capace di creare un legame empatico con le persone; di far filtrare i sogni tra le maglie troppo strette e rigide della società contemporanea.

 

Come gli artisti più sensibili, Bonatti fu capace di trattenere le suggestioni dell'infanzia per viverle non appena il fisico glielo ha permesso

Questa fu la sua prima grande impresa, considerando che, in quegli anni di guerre mondiali e di "miracoli economici", non era facile rimanere bambini a lungo.

 

A partire dagli esordi sulle pareti delle Prealpi lombarde era evidente che il bergamasco avesse una marcia in più. A soli diciannove anni si testò con successo su alcune delle vie più complicate delle Alpi con l’amico Andrea Oggioni. A ventuno, assieme a Luciano Ghigo, compie la prima ascesa della parete est de Le Grand Capucin, una guglia di granito che, emergendo dai ghiacci del Monte Bianco, si innalza per oltre 400 metri. All’epoca, considerata la compattezza, era giudicata inscalabile. L’allora famosissimo alpinista marsigliese Gaston Rébuffat definì questa scalata come la più grande impresa su roccia realizzata fino a quel tempo.

 

A ventitré anni, in compagnia di Carlo Mauri, è alla scoperta dei versanti nord delle Tre Cime di Lavaredo in pieno inverno: sono i primi ad arrampicarsi sulla ovest durante la stagione più rigida dell’anno, affrontando non solo le notevoli difficoltà tecniche che presenta la parete, ma anche temperature capaci di toccare i ventiquattro gradi sottozero. 

 

Poi, nel 1954, arriva la chiamata per la grande spedizione sul K2. Bonatti era il più giovane del gruppo. Un tempo era opinione diffusa che l’apice delle potenzialità atletiche fosse espresso dal corpo a un’età più matura, compresa tra i trenta e i quarant’anni. Così lui, appena ventiquattrenne, rappresentava un’eccezione. A fine spedizione, tuttavia, furono proprio le individualità anagraficamente “più mature” a rivelarsi acerbe: non tanto dal punto di vista fisico, perché la vetta fu raggiunta, ma da quello umano.

Ancora oggi la spedizione, più che per i risultati ottenuti, è ricordata per il tradimento che lo costrinse a improvvisare un bivacco a oltre 8000 metri di quota assieme al portatore hunza Amir Mahdi. I due riuscirono miracolosamente a superare la notte, rientrando tra lo stupore di tutti.

 

Il K2 rappresentò per Bonatti una ferita profonda. Una delusione capace di mortificare prima e di temprare poi il suo carattere. 

 

Si riscatta un anno più tardi, scalando in solitaria le verticalità estreme della sud-ovest del Petit Dru. Rimane in parete sei giorni, lontano da un mondo che lo aveva profondamente amareggiato. Scala per se stesso: per lui l’arrampicata non è uno strumento di affermazione sociale, ma una passione sincera e assoluta. 

Il quinto giorno si trova di fronte a un passaggio apparentemente insuperabile. Non riesce ad aggirarlo e, considerato il dedalo affrontato in salita, nemmeno una ritirata in corda doppia è concepibile. Ma la disperazione, quando non annebbia la mente, stimola l’ingegno. Bonatti scorge una dozzina di metri sopra di lui alcune scaglie “simili alle dita di una mano aperta”.

Non sembrano molto solide, ma non c’è alternativa. Con la corda si inventa un sistema di nodi che, a mo’ di tentacoli, dovrebbe incastrarsi tra una scaglia e l’altra. Dopo svariati lanci, la corda si aggancia. Convincere il proprio corpo a lasciarsi andare nel vuoto, per poi risalirlo a forza di braccia, è uno sforzo snervante. L’ancoraggio incredibilmente tiene, restituendo a Bonatti l’entusiasmo perduto. 

 

Dopo aver collezionato nuove ascese (alcune segnate da circostanze drammatiche) sulle Alpi, in Pakistan e in Sudamerica, il 22 febbraio del 1965 scala in solitaria la parete nord del Cervino, d’inverno e attraverso una nuova via. Un trittico di eccezionale valore. Per toccare la croce di vetta gli servirono quattro giorni e quattro gelidi bivacchi. 

 

Dopo quella scalata abbandonò l'alpinismo estremo. Aveva solo trentacinque anni. Non fu una scelta semplice - soprattutto perché l'alpinismo è un'attività adrenalinica, capace di creare dipendenza - ma necessaria per lasciarsi suggestionare da altri contesti; obbligatoria per non ristagnare solo in uno degli infiniti terreni d'esplorazione.

 

Grazie alla proficua collaborazione con la rivista Epoca, scoprì il fascino dell’avventura orizzontale. Spesso scelse di seguire le ambientazioni dei libri che da bambino avevano stimolato la sua immaginazione. I suoi vangeli, amava ripetere, erano stati scritti da Stevenson, Defoe, Conan Doyle, Conrad, Jack London, Melville. Queste nuove imprese nascevano dalla letteratura, diventavano realtà attraverso l’esperienza “sul campo”, per poi ritornare sulla carta grazie a dettagliati reportage.
Dunque Bonatti riuscì a diventare esploratore di se stesso non solo con le numerose “solitarie”, ma anche con la scrittura e la fotografia: due elementi di fondamentale importanza per metabolizzare l’azione.

 

Continuò a esplorare e a esplorarsi fino a ottantun anni, quando un cancro al pancreas gli tolse la vita. Sul letto di morte, la compagna Rossana Podestà fu allontanata dal personale medico. Una decisione figlia di un’Italia bigotta, motivata dalla mancata unione coniugale dei due. Così Bonatti morì da solo, in una clinica ospedaliera romana. Un'altra volta tradito dall’umanità, un’altra volta impossibilitato a mitigare la paura condividendola.

 

“La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà” amava dire Fabrizio De André. Un riferimento autobiografico che, tuttavia, può rivelarsi un’efficace didascalia all’intera vita di Walter Bonatti.

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