Nel settembre 1922 il fascismo è “uno Stato in potenza”: violenze, scontri e soprusi alla vigilia della Marcia su Roma
La primavera-estate del 1922 rappresentò l’anticamera della presa del potere fascista. Tra devastazioni delle sedi delle organizzazioni antifasciste, agguati e spedizioni punitive, l’assalto ai gangli del potere nelle province continua, ingigantendo il raggio d’azione e la diffusa impunità per i responsabili. Le camicie nere sono a questo punto pronte a fare il salto di qualità. Continua la rubrica “Cos’era il fascismo”
“In Russia e in Italia si è dimostrato che si può governare al di fuori, al di sopra e contro tutta la ideologia liberale… posto come assiomatico che qualsiasi provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo eviterete con la forza, coll’accantonare il massimo di forza. Coll’impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si renda necessario… ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali. Quando un gruppo o un partito è al potere, esso ha l’obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro tutti… gli uomini sono forse stanchi della libertà. Si sappia dunque una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo più o meno decomposto della Dea Libertà” (da Gerarchia del marzo 1923, Benito Mussolini)
TRENTO. Fattosi – come poi dirà lo squadrista Francesco Giunta – “Stato in potenza”, il fascismo nell’estate del 1922 accelerava la resa delle autorità liberali. Dopo un “agosto nero”, in cui decine erano state le giunte comunali d’opposizione destituite, così come le vittime della violenza fascista lungo tutta la penisola (QUI l’articolo), il mese di settembre proseguì in questo solco.
A farne le spese, appunto, furono soprattutto le opposizioni. Tra devastazioni di Camere del lavoro, sedi e giornali, nemmeno i deputati furono risparmiati da minacce e percosse. A Monza, al grido di “Torna in Russia, non sei italiano!”, il giorno 2 settembre veniva circondato, pestato e costretto a lasciare la città il deputato comunista Ezio Riboldi, già sindaco fra il 1914 e il 1917. L’11, invece, toccava ai socialisti Adelchi Baratono, picchiato a sangue fuori dalla stazione di Torino, e a Tommaso Angelo Tonello, colpevole di essere tornato nel Comune di Oderzo, nel Trevigiano, nonostante il bando decretatogli dai fascisti. Prelevato dalla propria abitazione, Tonello fu costretto a bere l’olio di ricino e, accompagnato in auto, a lasciare definitivamente il Veneto, pena la morte.
Il 28 settembre a cadere nella rete fascista fu l’onorevole socialista Luigi Frontini, percosso dopo che i carabinieri che gli facevano da scorta si scansarono all’arrivo degli squadristi. Anche tra i popolari, poi, vi furono delle vittime della violenza nera: il giorno 20 settembre veniva bastonato a Venezia l’onorevole Antonio Alberti, mentre il giorno successivo, a Cremona, il deputato Guido Miglioli, leader della sinistra del Ppi, fu costretto a stabilirsi in prefettura, rincorso e assediato dai fascisti.
Oltre che contro i tradizionali nemici, dai comunisti ai socialisti, dagli anarchici ai repubblicani, i fascisti scaricavano la violenza anche su altri soggetti, considerati ostacolo o seccatura sulla strada della presa del potere. Il giorno 17, a Monza, migliaia di fedeli accorsi per la conclusione del Congresso eucaristico (celebrata dal vescovo di Milano Eugenio Tosi e dal legato pontificio cardinal Pietro Maffi) venivano assaliti e dispersi dalle camicie nere a forza di randellate. A Bacchereto, in provincia di Prato, i fascisti locali pretendevano ed ottenevano il trasferimento del parroco, considerato antifascista.
Pure nel fronte fascista, nondimeno, si registravano dissidi e scontri. Il caso più eclatante coinvolse la città di Ferrara, “regno” del battagliero e autorevole ras Italo Balbo. La rottura – insanabile – si consumò attorno all’opportunità o meno di emanciparsi dall’egemonia agraria, tanto che gli scissionisti, favorevoli a sganciarsi, vennero espulsi dal partito e raggiunti da un migliaio di uomini fedeli a Balbo, con tanto di feriti gravi fra gli assalitori. Lo stesso leader dello scisma, il maggiore Gaetano Ulivi, venne sfidato a duello dal ras ferrarese. A Taranto, il comizio del deputato dissidente fascista, passato con i nazionalisti, Alfredo Misuri, accese la miccia della mobilitazione squadrista, con una vera e propria caccia all’uomo all’origine di una morte e di diversi ferimenti, tra cui quello dello stesso onorevole, sequestrato e percosso.
I dissidi intestini e la differenza di vedute all’interno del movimento, d’altronde, avrebbero potuto nuocere non poco al fascismo, come già avvenuto in altre occasioni (vedi il Patto di pacificazione con i socialisti del 1921, QUI l’articolo). Tuttavia, la gerarchia del partito seppe incanalare la violenza, piegandola ai propri fini. Scrive lo storico Mimmo Franzinelli in Squadristi: “Nell’estate del 1922 l’esercito delle camicie nere era a tal punto numeroso e spavaldo che, senza obiettivi unificanti (la repressione dello sciopero legalitario e la marcia sulle città), si sarebbe disgregato e i ras indisciplinati avrebbero agito ognuno per conto proprio, anteponendo le convenienza localistiche a finalità generali. La violenza, se non arginata dalle gerarchie e incanalata verso intenti condivisi, avrebbe preso la mano e prodotto esiti dannosi per il movimento”.
Non è un caso, dunque, che sulla stampa fascista apparissero anche dure filippiche contro gli eccessi d’efferatezza, come in questo caso su Audacia, organo della federazione fascista veronese. “Quando si legge che in questo o in quel paese, durante una discussione, un diverbio ecc. qualcuno ha fatto fuoco, così stupidamente, bestialmente, senza un’evidente ragione che potesse giustificare il suo atto – si legge nel numero del 26 agosto ’22 - si prova un impeto di rivolta, il bisogno preponderante di gridare: «Fuori dalle nostre file i pazzoidi, i furfanti che vi si possono avere introdotti; fuori chi non ha nervi a posto; fuori i cretini e i deficienti del cervello e del cuore». Fuori, o un giorno leggeremo sul Popolo d’Italia che qualche fascista è morto giustiziato dalle revolverate del proprio capo-squadra”.
Mobilitato nelle periferie, dove nuclei più o meno nutriti di camicie nere assaltano le residue forze delle opposizioni, il fascismo nel settembre del 1922 ha già compiuto il salto di qualità che lo porterà alla conquista della capitale. I centri provinciali sono infatti da tempo al centro delle spedizioni, tese a conquistare i gangli del potere, atterrendo definitivamente gli avversari e costringendo le autorità liberali – quando non apertamente complici – ad issare bandiera bianca.
Il giorno 3 settembre, a Civitavecchia, città che, come Parma (QUI l’articolo), aveva visto il respingimento dei fascisti da parte delle organizzazioni antifasciste sostenute dalla cittadinanza, le squadre riorganizzate e rafforzate riprendono l’assalto al potere, inaugurando una settimana di durissimi scontri. L’assedio si concluderà solamente il giorno 9, lasciando sul terreno cinque caduti fra i difensori della città, ormai costretta ad arrendersi e a destituire la giunta socialista.
A Massa, invece, l’arresto di un manipolo di fascisti per l’uccisione di tre Arditi del popolo scatena la reazione delle squadre al comando di Renato Ricci, protagonista l’anno prima dei fatti di Sarzana (QUI l’articolo). Il 7 e l’8 oltre duemila camicie nere occupano la città e intimano ai magistrati di liberare i prigionieri entro 24 ore. L’ultimatum, con tanto di minaccia d’assalto alle carceri, andò a buon fine, con la liberazione dei camerati festeggiata da una grande sfilata a cavallo.
A Bolzano, intanto, venne rimosso dopo numerose e rumorose proteste lo storico borgomastro Julius Parathoner, già da tempo sospeso dalla carica con decreto ministeriale. I fascisti, a pochi giorni dalla marcia con cui verrà destituito il governatore civile della Venezia Tridentina Luigi Credaro e frustrata ogni ipotesi autonomistica (QUI l’articolo), il 27 settembre concentrarono abbondanti forze provenienti da tutto il nord Italia proprio a Bolzano. L’obiettivo? Costringere il Consiglio comunale a sciogliere la guardia cittadina e a trasformare la principale scuola tedesca in un istituto di lingua italiana.
Sfacciatamente impuniti, i fascisti compiono violenze e soprusi in tutto il Paese, incontrando spesso, come nella repressione delle occupazioni delle terre del principe di Roccella, a Casignana (provincia di Reggio Calabria), l’aperta collaborazione delle forze dell’ordine. È il 22 settembre, infatti, quando carabinieri e camicie nere sgomberano con la forza i campi occupati dagli aderenti ad una cooperativa socialista, uccidendo braccianti e politici locali e ferendo gravemente il sindaco.
L’episodio più macabro, però, si verificò nell’ultimo giorno del mese. Mentre Forlì veniva sottoposta all’occupazione e alle deliberate violenze squadriste, il giovane operaio comunista Domenico Martoni venne prelevato dalla propria abitazione, brutalmente bastonato, legato a un camion e trascinato fino alla periferia della città. In fin di vita, viene poi raggiunto da diversi colpi di pistola, con i fascisti che gli urinano in bocca. Ridotto in condizioni disperate, il ventiquattrenne morirà il giorno successivo all’ospedale di Forlì.