“I nostri morti si vendicano”: la strage di Torino e il fascismo alla conquista delle grandi città industriali
Tra il 18 e il 20 dicembre 1922 la città di Torino fu sconvolta da un’ondata di barbare uccisioni compiute dai fascisti. Il pretesto della rappresaglia per l’omicidio di due camicie nere permise infatti di seminare il terrore in un centro industriale dove erano radicati i movimenti d’opposizione. La strage era dunque parte di una precisa strategia per conquistare anche simbolicamente i territori dove il fascismo aveva meno attecchito. Prosegue la rubrica “Cos’era il fascismo”
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“I più forti hanno sempre ragione” (da Diario 1922, di Italo Balbo)
“I nostri morti non si piangono, si vendicano” (dichiarazione di Piero Brandimarte, capo dello squadrismo torinese, in occasione della mobilitazione delle camicie nere piemontesi, 18 dicembre 1922)
TRENTO. Tra il 18 e il 20 dicembre 1922, la città di Torino venne sconvolta da svariati ed efferati omicidi. Non è un caso, dunque, che i fatti in questione siano stati interpretati come una vera e propria strage, compiuta dallo squadrismo locale contro i membri di diverse organizzazioni d’opposizione. Ma non solo: fra le numerose vittime si contarono anche un informatore della polizia, un ex carabiniere ed un piccolo imprenditore. Nessuno, dimostrarono i fascisti del ras Piero Brandimarte, avrebbe potuto sentirsi al sicuro nella "città della Mole".
In tre anni di squadrismo, il movimento – poi partito (QUI l’articolo) – fascista non solo era dilagato nel Paese, ma aveva progressivamente preso incontrastato possesso di diversi territori. Alla Marcia su Roma (QUI l’articolo), pertanto, il suo predominio era già chiaro, l’immobilismo e la connivenza di settori dello Stato e della società civile altrettanto. Nonostante la teorica sopravvivenza del parlamentarismo e della vita democratica, svuotati dalle pratiche squadristiche, nel Paese continuavano così ad esserci barlumi d’opposizione, specialmente nei grandi centri industriali del Nord.
Per i fascisti, dunque, si apriva una delicata fase di consolidamento del potere, in cui un ruolo decisivo veniva giocato dalle camicie nere, verso cui Mussolini, con altalenanti dichiarazioni, dimostrava un atteggiamento piuttosto ambiguo. “Mi sono imposto dei limiti – affermava di fronte all’aula della Camera nel suo primo discorso da presidente del Consiglio, il 16 novembre – con 300mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli […] potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto” (QUI l’articolo sul cosiddetto “discorso del bivacco”).
Fra un invito a limitare la violenza e una minaccia di sciogliere le squadre, Mussolini manteneva pertanto un atteggiamento alquanto contraddittorio. La “santa canaglia” – nome decisamente illuminante su questa equivocità, con cui si indicavano gli squadristi – mentre pubblicamente si ammoniva, dall’altra continuava a svolgere un ruolo centrale. D’altronde, lo stesso statuto del partito ne aveva chiarito la collocazione nelle strutture dell’organizzazione, dichiarandola “tutt’uno” con cui “l’Italia fascista si incarna e si difende” (QUI l’articolo).
Se nelle zone dove il fascismo aveva già fatto breccia non c’era bisogno di grandi prove di forza, ben diversa era la questione nei grandi centri industriali. Scrive lo storico Matteo Millan in Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista: “Altrove, soprattutto nella grandi città industriali, dove la resistenza al fascismo era risultata efficace e tenace, il movimento non riesce a radicarsi in profondità. Qui, la presa del potere non fa altro che scatenare la frustrazione dello squadrismo che non esita a ricorrere a metodi brutali e terroristici. Non si tratta infatti di una conquista meramente militare e territoriale, ma anche simbolica. Vere e proprie mobilitazioni squadriste si hanno in occasione dei momenti politici più delicati, quando lo sfoggio del potenziale di intimidazione e il ricorso alla violenza concorrono a dimostrare – agli scettici, agli incerti, o anche ai più coraggiosi tra gli oppositori – che nessuna alternativa è possibile. Quelli che all’apparenza sembrano solo ‘scoppi improvvisi’ di violenza sono in realtà il prodotto di una strategia politica consapevole e dell’invariata attualità della forma mentis di moltissime camicie nere”.
È questo dunque il contesto in cui avvennero le violenze del dicembre ’22 a Torino. Pretesto per le spedizioni, come spesso accadde, fu l’uccisione di due squadristi. È la notte fra il 17 e il 18, presso la barriera di Nizza, quando il tranviere Francesco Prato ferisce a morte i fascisti Giuseppe Dresda e Lucio Bazzani durante uno scontro. La notizia arriva immediatamente ai vertici dello squadrismo torinese: Piero Brandimarte, ras di Torino, ordina la mobilitazione da tutta la regione. “I nostri morti non si piangono, si vendicano”, proclama di fronte alle 3000 camicie nere accorse da ogni angolo del Piemonte.
La Camera del Lavoro viene occupata e incendiata per la terza volta; circoli socialisti e comunisti, in giro per la città, devastati. È il filotto di omicidi, però, a lasciare senza parole: un oste, confidente della polizia, si vede il locale invaso dagli squadristi. Di fronte alle perquisizioni degli avventori, accenna una protesta che gli costa la vita. Portato nel retrobottega, viene freddato con due colpi alla testa e accoltellato nello stomaco.
Un simpatizzante comunista, Matteo Chiolero, viene raggiunto a casa e ucciso mentre è a tavola con la sua famiglia. L’ex ferroviere Giovanni Massaro, rapito, viene ammazzato con tre colpi alla nuca. Prelevato in casa, anche il giovane comunista Matteo Tarizzo viene giustiziato in strada, questa volta con un colpo di clava al capo. Portato in campagna, il consigliere comunale comunista Carlo Berruti viene ucciso da cinque colpi di pistola. Per le proteste di fronte a questo atto indiscriminato, l’ex combattente Angelo Quintagliè viene ucciso nel proprio ufficio.
La brutalità si impone come il marchio di quei giorni: un camion, con legato per i piedi il cadavere del segretario dei metallurgici Pietro Ferrero, percorre corso Vittorio Emanuele. Nondimeno, c’è spazio anche per le vendette personali. In tutto, alla fine, i morti sono 11, molto più numerosi i feriti. Brandimarte, senza alcuno scrupolo, mette in discussione le stesse statistiche: “Altri cadaveri saranno restituiti dal Po, se così vuole, o altrimenti si troveranno nei fossi, negli avvallamenti e nelle boscaglie sulle colline intorno a Torino”. Per la città la strage è un vero e proprio spartiacque, un orrorifico bagno di realtà che “diffonde un clima di terrore” (Millan).
La reazione dà testimonianza del doppio binario con cui ormai si affrontano le violenze. In primis si condannano, giustificandole però come “un monito ai sovversivi” e ai loro fiancheggiatori. L’uccisione dei due squadristi non può rimanere impunita, la rappresaglia – dice Brandimarte – deve mostrare “la volontà di stroncare per sempre ogni resistenza avversaria” poiché “questo nemico non merita pietà” (Millan).
Cesare Maria De Vecchi, grande vecchio dello squadrismo piemontese, rivendica al tempo stesso pubblicamente la “responsabilità morale e politica” delle sue camicie nere. Nell’inchiesta ufficiale, affidata al gerarca Francesco Giunta e all’ispettore generale di Pubblica sicurezza Giovanni Gasti, si attribuisce ai dirigenti locali la colpa di non aver saputo frenare le squadre, ma di fatto si riconosce la strage come una risposta necessaria alle provocazioni sovversive.
Il protagonista, Piero Brandimarte – bersagliere, atleta, fondatore della prima squadra piemontese, La Disperata – da parte sua non si prodigò nemmeno un po’ per nascondere gli intenti e le modalità della smodata rappresaglia. “Noi possediamo l’elenco di 3000 nomi di sovversivi – dichiara in un’intervista a La Stampa – tra questi ne abbiamo scelti 24 e i loro nomi li abbiamo affidati alle nostre migliori squadre, perché facessero giustizia. E giustizia abbiamo fatto”.