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Da Tolomei allo squadrismo: fatti e protagonisti della violenza anti-nazionale in Alto Adige

Inserendosi nella cornice nazionalista preparata da Ettore Tolomei, il fascismo in Alto Adige condusse azioni mirate per colpire l’irredentismo tirolese e screditare ogni atteggiamento liberale delle autorità verso le minoranze linguistiche. A guidare le squadracce figure esterne alla realtà locale: Achille Starace, promotore del fascismo nella Venezia Tridentina, il nazionalista veronese Alberto de’ Stefani, il ras di Cremona Roberto Farinacci e quello della Venezia Giulia Francesco Giunta, già protagonista dell’incendio del Narodni Dom, centro culturale degli sloveni di Trieste. Ecco il nuovo episodio della rubrica “Cos’era il fascismo”

Di Davide Leveghi - 04 luglio 2021 - 11:16

E’ da Bolzano, ricordiamolo, è da Bolzano che partì il grande moto d’ottobre. È dal cuore dell’Alto Adige che venne l’impulso. È da questo antico fondo di vulcani che proruppe l’eruzione delle camice nere. La travolgente azione di Bolzano iniziò la rivoluzione, riportò a Roma in trionfo l’anima della Vittoria. Non sia dimenticato mai” (Ettore Tolomei, dal discorso al Teatro civico di Bolzano, 15 luglio 1923)

 

TRENTO. Massima espressione del nazionalismo aggressivo e imperialista, il fascismo in Alto Adige poté beneficiare dell’infaticabile lavoro svolto da Ettore Tolomei. Il geografo roveretano, trasferitosi a Gleno, vicino a Egna, ancora prima della vittoria italiana nella Grande Guerra, aveva costruito un immenso repertorio di informazioni utili a basare la presunta italianità della regione; tra queste, la stessa denominazione “Alto Adige”, comparsa per la prima volta (senza alcuna accezione nazionale) in epoca napoleonica, e recuperata in senso nazionale proprio grazie a Tolomei.

 

Dal “Prontuario”, riportante centinaia e centinaia di toponimi inventati di sana pianta o desunti scientificamente, alla Vetta d’Italia, cima così ribattezzata dopo una simbolica scalata (il nome tedesco è Klockerkarkopf), Tolomei aveva ri-plasmato la latinità di quella terra conquistata a Roma da Druso nel 16 a.C. e poi popolata da popolazioni germaniche nel corso dell’Alto Medioevo. La sua missione, dunque, era consistita proprio nell’eliminazione di quella che considerava niente più che una “patina germanica” da una terra storicamente ed etnicamente italiana (QUI un approfondimento).

 

Nel contesto d’ubriacatura nazionalista della Grande Guerra, l’alacre lavoro del Tolomei finì per saldarsi così con le aspirazioni imperialiste italiane: il Brennero, ben più che la Stretta di Salorno - che divide sostanzialmente gli italofoni del Trentino dai germanofoni dell’Alto Adige – sarebbe dovuto divenire italiano, permettendo una difesa più sicura della penisola. L’atteggiamento delle autorità liberali nell’immediato dopoguerra, a seguito della vittoria e dell’annessione dello spartiacque alpino, cercò nondimeno di venire a patti con una popolazione profondamente addolorata dallo strappo con la madrepatria e decisa in sede internazionale a protestare contro quella che considerava un’inaccettabile ingiustizia.

 

Proprio contro l’atteggiamento delle autorità liberali e contro il forte sentimento di appartenenza nazionale dei tirolesi di lingua tedesca e ladina, si scagliò a questo punto il movimento fascista. Se il Trentino divenne il retroterra da cui guidare le azioni (QUI l’articolo), l’Alto Adige fu ben presto il palcoscenico di uno scontro nazionale condotto in forma asimmetrica.  Alle rimostranze e alle manifestazioni nazionali, le squadre, provenienti da fuori regione (e in parte dal vicino Trentino), contrapposero la più brutale violenza.

 

La “madre” di tutte le violenze fasciste in Alto Adige fu sicuramente l’uccisione di Franz Innerhofer, maestro di Marlengo colpito da una fucilata alla schiena mentre cercava di mettere in salvo i suoi studenti. Era il 24 aprile 1921 e a Bolzano sfilavano, in una settimana di festa, i cortei folcloristici per celebrare la riapertura della Fiera. La città, nel giorno più importante delle celebrazioni, mentre a Innsbruck si teneva un referendum per la fusione dell’Austria con la Germania (soluzione proibita dal Trattato di Versailles), fu messa a ferro e fuoco da qualche centinaio di fascisti provenienti da Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia e Trentino (QUI un approfondimento).

 

Ma perché quella terribile spedizione non aveva visto come protagonista uno squadrismo autoctono? La risposta, se vogliamo, sta già nella figura individuata come responsabile dell’omicidio di Innerhofer, che tanto scalpore creò (i giornali locali, oltre a quelli di Austria e Germania, non tardarono a coniare l’espressione “Domenica di sangue”) e che – di contro alla rappresentazione successiva che si diede all’evento – riuscì a creare delle prime esemplari dimostrazioni di solidarietà interetnica (mai sbocciata): Lino Mariotti, friulano, era emigrato a Bolzano, dove si era insediato con la famiglia, aprendo un’impresa di commercio di frutta.

 

Fragile, litigioso, senza radici, il fascismo altoatesino prese forma dall’immigrazione italiana dalle vecchie province. Il primo fascio, a differenza che nel vicino Trentino, nacque solo nel febbraio del ’21 e con estrema difficoltà prese il decollo, arrivando a contare per diverso tempo non più che un centinaio di iscritti (Andrea Di Michele). Per questo, anche in occasione della seconda e decisiva spedizione – quella dell’ottobre 1922 a Bolzano e a Trentoa guidare le squadre ci pensarono figure esterne alla realtà locale: Achille Starace, promotore del fascismo in Venezia Tridentina, il nazionalista veronese Alberto de’ Stefani, il ras di Cremona Roberto Farinacci e quello della Venezia Giulia Francesco Giunta, già protagonista dell’incendio del Narodni Dom, centro culturale degli sloveni di Trieste (QUI un approfondimento).

 

Con la tolleranza, se non il sostegno, delle forze dell’ordine e delle forze armate, schierate in gran numero ma passive di fronte alle violenze, le centinaia di fascisti raccolte nei due principali centri della Venezia Tridentina deposero di fatto le autorità liberali, chiudendo ad ogni istanza autonomistica e ad ogni richiesta culturale delle minoranze linguistiche (QUI un approfondimento). Ma perché, come avvenne in altre parti d’Italia, fu possibile questa palese connivenza?

 

A differenza che in Venezia Giulia, dove accanto alle ragioni nazionali le violenze fasciste trovavano legittimità nell’attacco ai sovversivi – non a caso si parlava di “slavo-comunismo”, essendo gli slavi “nemici di classe” oltre che nazionali – il principale bersaglio delle prove di forza condotte dalle squadracce in Alto Adige fu l’irredentismo tirolese. L’elemento nazionale, pertanto, caratterizzò ogni azione, dalle due più importanti dell’aprile ’21 e dell’ottobre ’22 alle puntate in Bassa Atesina per l’eliminazione dei simboli asburgici. Scritte tedesche e aquile tirolesi furono infatti oggetti privilegiati di azioni simboliche volte ad appropriarsi di quella terra passata finalmente al Regno d’Italia.

 

In questa differenza, oltre che nel prestigio e nella riconquistata forza che il mondo tedesco avevano nell’Europa del tempo, si può comprendere anche la diversa intensità della violenza scatenata contro le minoranze tedesca e slave (QUI un approfondimento). Salito al potere, il fascismo avrebbe non a caso assunto un atteggiamento duro ma non privo di cautele verso i tedeschi dell’Alto Adige: dalle promesse (non sempre rispettate) di tutela dei diritti culturali fatte all’Austria filofascista di Engelbert Dollfuss – su cui si consumò la rottura fra Mussolini e Tolomei, promotore di più incisive azioni snazionalizzatrici – si passerà poi agli accordi con i nazisti, culminati con le Opzioni del 1939. “Impermeabili” all’italianizzazione, per i sudtirolesi si preferì dunque la soluzione del trasferimento nel Reich (QUI e QUI degli approfondimenti).

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