"Ispirandomi a Dostoevskij, narro una Lessinia sconosciuta al cinema", Alberto Rizzi racconta il suo film 'Squali': "Melodramma incentrato sull'avidità"
Il regista veronese Alberto Rizzi racconta a il Dolomiti il suo ultimo film 'Squali' che farà tappa al Cineforum di Bolzano: "La Lessinia era l'ambientazione ideale per la storia che volevo raccontare, un territorio sconosciuto al cinema con tratti magici e dove vita e morte, luce e ombra si intrecciano: cercavo questa dinamica, con questa montagna che diventa quasi un membro della famiglia che narro"
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BOLZANO. Un film sospeso tra la moderna tragedia greca e il western, ambientato nella Lessinia Veronese e liberamente ispirato al capolavoro "I fratelli Karamazow" di Dostoevskij. Basterebbero già questi "ingredienti" a suscitare curiosità attorno a "Squali", l'ultimo film del regista veronese Alberto Rizzi che farà tappa venerdì 21 febbraio (ore 20) al Cineforum di Bolzano.
Protagonisti della pellicola, ambientata in un "profondo Veneto montano" che Rizzi definisce "una terra di confine sia umano che geografico", i fratelli Camaso che, per diverse vicissitudini, si trovano nella casa d'infanzia dominata dal padre Leone. Ad emergere, in questo contesto, è un intreccio di personaggi in cerca di salvezza e mossi da istinti primari, su tutti l'avidità, e da quelle "turpitudini dell'animo umano" che il regista riesce a intrecciare con un "filo di ironia e leggerezza".
"Questo film si può definire un western veneto ambientato nelle montagne veronesi, un melodramma famigliare incentrato sull'avidità dei fratelli Camaso che si trovano a fronteggiare un padre padrone che li sovrasta – racconta a il Dolomiti l'autore e regista Alberto Rizzi – e l'intenzione era quella di realizzare un film visivo e al contempo visionario, basato sull'indagine dei tratti umani del capolavoro di Dostoevskij"
Alberto Rizzi, lo ha definito un film di confine. Cosa intende?
Si tratta di un western, dal momento che la Lessinia, anche per come l'ho rappresentata, si delinea come territorio di frontiera, un territorio montano e inesplorato. La frontiera più importante è però quella interna ai personaggi, che si contendono costantemente la vita e la morte seguendo dinamiche ancestrali. Si definiscono squali perché si riconoscono in quelli fossili di Bolca, e sopravvivono contro una natura che lotta contro le persone. I confini morali stessi dei protagonisti, inoltre, si possono definire sul crinale tra l'umano e il ferino, e il protagonista stesso in una battuta dice "prima di essere lupi eravamo squali".
Scegliere un ambientazione così particolare, significa anche voler raccontare quel territorio.
Ho scelto una montagna veneta, e anche la maggior parte degli attori provengono da questa regione: posso dire che la Lessinia era la naturale ambientazione per la storia che io volevo raccontare. È inoltre un territorio che è sconosciuto al mondo del cinema: un paesaggio che ha tratti magici, con la sua pietra onnipresente, i fossili, il ponte di Veja e la Valle delle Sfingi, tutti ambienti che conservano una magia antica, dove la vita e la morte e la luce e l'ombra si contendono uno spazio. Era questa dinamica che cercavo, e la Lessinia diventa quasi un altro componente della famiglia che racconto.
Come si è confrontato con il romanzo "I fratelli Karamazov" e come ha lavorato in tal senso?
Si tratta di un'opera molto vasta, ma con una trama abbastanza condensata, e che fa emergere un'indagine immensa dell'animo umano che rimane nei secoli immutato: è questa la forza che mi ha permesso di compiere questa trasposizione cinematografica. Ho cercato di trarre dal romanzo i tratti fondamentali che servivano per il mio racconto, tra tutti quello dell'avidità: non solo dal punto di vista economico ma anche da quello dei sentimenti, tratto che emerge nel film, e spirituale.
Parlando di indagine dell'animo umano, ha dichiarato di esser riuscito a toccare le sue turpitudini, intrecciandole con tratti di ironia e leggerezza.
Esattamente, specifico che parliamo di un'ironia tragica che è presente anche in Dostoevskij, io ho provato a riprenderla e questo si proietta anche sul personaggio di Leone Camaso che in un certo senso è un mostro, un cattivo, ma lo è in maniera clownesca, dal momento che tutte le sue caratteristiche si delineano come tragicamente grottesche.
Raccogliendo l'assist e virando sui personaggi, tutti sembrano gravati da una "maledizione", destinati quasi a soccombere fisiologicamente. Ce n'è qualcuno in particolare che spicca per il messaggio che riesce a convogliare?
Tutti i fratelli sono affetti da una sorta di condanna, una maledizione, la stessa che emerge nel romanzo: sono tutti immersi nelle proprie colpe, e parallelamente alla ricerca di una possibile salvezza, sono nell'ombra ma cercano la luce. Un personaggio che tra tutti fa emergere meglio queste contraddizioni è Sveva, l'unica figlia della famiglia: sembra quella più schiacciata dal peso della sua interiorità e dell'ambiente circostante, poi alla fine riuscirà a fare il passo che tutti gli altri non riescono compiere, chiudendo il cerchio.
Un aspetto interessante è quello della lingua che ha scelto per il suo film, un italiano che non si stacca però dalla marcata inflessione veronese, i cui tratti emergono chiari.
Ho voluto evitare il dialetto, perché non volevo relegare il film ad una "bolla regionale", ho lasciato però che gli attori mantenessero la loro inflessione. Ci siamo chiesti quanto "spingere" verso la parola dialettale, e abbiamo optato per un veneto "soft" anche perché non è un tratto linguistico molto frequentato nel cinema italiano, e in un certo modo rappresenta quindi una particolarità.
Dalla parola all'immagine, il film richiama un cinema a cui forse non eravamo più abituati: il riferimento è all'evidente volontà di realizzare inquadrature che potrebbero quasi essere definite pittoriche.
Assolutamente sì, e pensi che anche quando scrivo parto sempre dalle immagini. Credo che per molti anni ci sia stata quasi una paura nel tornare a realizzare un cinema di "grandi immagini", nonostante grandi autori - come Fellini, Leone e Germi - abbiano fatto scuola a livello internazionale. Ora si assiste ad un ritorno da questo punto di vista e sono convinto che il cinema sia fatto di immagini, e che per questo motivo è fondamentale delineare una poetica dell'immagine stessa, altrimenti tutto viene ricondotto ad una mera sfera estetica. Quando un'immagine domina nel cuore di uno spettatore, insomma, restituisce un senso compiuto, e il mio intento è quello di dare una forma al linguaggio cinematografico.
Un'ultima curiosità, lei ha scritto apprezzatissime drammaturgie per il teatro, affiancate a quelle per il piccolo e grande schermo. Indubbiamente modalità di lavoro differenti: qual è il filo rosso che unisce queste diverse facce del suo essere autore?
Sono sicuramente linguaggi differenti però c'è un fatto curioso: dei miei film viene detto che sono teatrali, e dei miei film che sono cinematografici (ride, ndr). Io mi pongo sempre nella dimensione di voler raccontare una storia, ed è quella che mi dice qual è la sua forma d'espressione migliore: nessuno dei miei spettacoli infatti potrebbe diventare un film, e viceversa.