Seviziata e uccisa dai partigiani? Il “caso Ghersi” tra storia e leggenda. Nicoletta Bourbaki: “Un esempio di narrazione anti-antifascista”
Il caso di una 14enne fascista uccisa a Savona nei giorni della Liberazione ha alimentato leggende nere che compaiono tuttora su giornali e pubblicazioni varie. Perché? Ne parla il collettivo Nicoletta Bourbaki nel libro La morte, la fanciulla e l’orco rosso
TRENTO. “Esistono due piani per raccontare la storia contenuta in questo libro: il primo è quello della vicenda, il secondo quello del caso. Cioè la storia delle storie, delle narrazioni che si sono fatte, successivamente, di quella vicenda”. Comincia così, il collettivo Nicoletta Bourbaki, a illustrare il lavoro per La morte, la fanciulla e l’orco rosso: il caso Ghersi. Come si inventa una leggenda antipartigiana.
L’impresa editoriale del gruppo nato ormai una decina d’anni fa per fronteggiare il dilagante revisionismo storico in rete tratta di un caso, il “caso Ghersi”, entrato sotto i riflettori del discorso pubblico mainstream a partire dagli anni ’90. Un caso che affonda le radici in quel garbuglio che fu l’Italia dell’immediato post-25 aprile 1945. Un Paese in fase di liberazione dal fascismo, al potere da un ventennio, e dall’occupante nazista. Un Paese agli sgoccioli della guerra civile che aveva impazzato per due anni.
Da qui parte il lavoro di Nicoletta Bourbaki: ricostruire dapprima le radici del “caso”, dunque la vicenda stessa, e da qui risalire fino “ai rami”. Fino alle storie fiorite attorno all’uccisione di una ragazzina 14enne da più parti indicata come spia e provocatrice repubblichina. “Giuseppina Ghersi nasce a Savona nel 1931 – spiega il collettivo, raggiunto al telefono dal Dolomiti – cresce in un quartiere popolare di una città dalla forte presenza operaia. La sua è una famiglia dedita al commercio ortofrutticolo. Dalle nostre ricostruzioni, questa è però nota anche per l’attività di borsa nera”.
“Se da una parte i Ghersi non risultano esplicitamente legati al fascismo, dall’altra sappiamo che la loro attività, durante il Ventennio, fu prosperosa – prosegue – la svolta avviene, a questo punto, nell’estate del 1944, quando uno zio di Giuseppina, che viveva con la famiglia, si arruola nelle forze repubblicane. La stessa Giuseppina, come ci raccontano diverse fonti, si attiva a favore della Repubblica sociale. Non potendosi arruolare alle formazioni fasciste perché troppo giovane, svolge tuttavia attività delatoria e di provocazione. Gira per strada armata e in divisa, si mostra fortemente convinta verso l’Rsi”.
È nei giorni della Liberazione, però, che la sua breve vita giunge a un epilogo tragico. Il contesto è quello della violenza insurrezionale, delle esecuzioni e delle vendette, in cui lo stesso Cln si trova costretto in certi casi a frenare la violenza popolare dopo le vessazioni di vent’anni e la barbarie della guerra civile (QUI un approfondimento). “La famiglia viene arrestata e condotta nel campo di prigionia di Legino. Anche Giuseppina, successivamente, viene catturata. E dopo qualche giorno viene trovato il suo cadavere, fuori dal cimitero di Savona, uccisa da un colpo di pistola”.
Chi ha ucciso, dunque, Giuseppina Ghersi? E perché questo fatto si è trasformato in un “caso”, trattato tuttora da giornali e pubblicistica? “Va detto che nel nostro lavoro di ricerca abbiamo reperito documentazioni che confermano la sua attività di delatrice – spiega Nicoletta Bourbaki – addirittura il parroco del quartiere delle Fornaci lo riporta nel registro parrocchiale al momento della morte. Negli anni successivi, per il ‘caso Ghersi’ si apre perfino un processo, in cui sul registro degli indagati figurano i partigiani savonesi accusati di diverse uccisioni. Un processo terminato con l’applicazione dell’amnistia Togliatti e una sentenza che riconosce nelle azioni commesse nessun’altra ragione che la lotta al fascismo e contro soggetti che hanno collaborato coi tedeschi e contro i partigiani”.
“Se siano stati i partigiani a uccidere Giuseppina Ghersi, in realtà, non lo dice alcun documento. Non c’è prova e tale accusa semmai compare, caricata di elementi splatter e horror, nella pubblicistica neofascista. Si racconta che sia stata seviziata, picchiata davanti ai genitori, violentata. Tutto ciò nonostante tali accuse non appaiano né negli atti del processo, né dalle testimonianze dei genitori. Sul movente, invece, si sostiene che i partigiani l’avrebbero eliminata perché vincitrice di un concorso letterario dedicato a Benito Mussolini”.
Anche di questo testo scritto da Giuseppina Ghersi per il duce del fascismo non v’è traccia. “Nel lavoro di ricerca e scavo abbiamo trovato invece, nell’Archivio di Stato di Roma, una lettera scritta a Mussolini anche da lei. Niente di particolare, a Mussolini venivano inviate migliaia e migliaia di lettere da sostenitori provenienti da tutto il Paese. Anche nel caso del movente, dunque, c’è una falsificazione”.
Il “caso Ghersi”, dunque, si potrebbe perdere fra i tanti altri episodi “ripescati” dalle narrazioni anti-antifasciste per denigrare la Resistenza. Sono decenni, ormai, che il mito fondativo della Repubblica si trova al centro di polemiche feroci, i partigiani presentati alla stregua di banditi sanguinari o rubagalline approfittatori (QUI un approfondimento). Stanca e svuotata da anni e anni di retorica, la narrazione antifascista ha prestato il fianco ad attacchi revisionisti sempre più violenti.
È così che vulgate marginali e relegate per decenni ai soli ambiti neofascisti si sono potute far strada e imporre nel dibattito pubblico. Lo hanno talvolta egemonizzato – si pensi al Giorno del Ricordo, di cui ogni anno ci occupiamo nella rubrica “Memory 27/1-10/2” (QUI l’articolo) e al caso per certi versi analogo di Norma Cossetto – decisamente lo hanno intossicato – si pensi alle leggi che sulla stessa vicenda del confine orientale impongono censure e limiti alla libera ricerca (QUI l’articolo).
Così anche nel “caso Ghersi”; da qui il lavoro del collettivo Nicoletta Bourbaki. “La narrazione anti-antifascista che accusa dell’omicidio i partigiani e imputa loro anche le torture e lo stupro è tesa a colpire il movimento di liberazione al nazifascismo. Il ‘caso Ghersi’ è uno dei tanti, che si pretende d'aver strappato al silenzio ma di cui in realtà si parlò già nel dopoguerra. Ciò che abbiamo fatto è stato dunque analizzarlo per mostrare come questo tipo di narrazioni vengano in realtà da lontano, riprendano stilemi tipici della cronaca nera, si perdano nella cronaca locale per poi riemergere negli anni ’90 ancora più forti sui media mainstream”.
“Non è un caso più meritevoli di altri, questo, ma è esemplare – continua – perché ad esempio l’accusa di stupro si ritrova solo negli anni ’90? Certo ci sono stati importanti cambiamenti socio-culturali, ma non è un caso che proprio in quel decennio l’immagine della Resistenza venga contrastata tout court. Si accusa inoltre ‘l’orco rosso’, i partigiani comunisti, per accusare l’intero movimento resistenziale”.
Del lavoro di Nicoletta Bourbaki, oltre al tema trattato, balza all’occhio il modo in cui viene trattato. Un metodo affinato in dieci anni di attività nel fronteggiare il revisionismo storico. “Questo caso, nello specifico, non poteva essere smontato ma decostruito. È stata un’occasione per mostrare al lettore la nostra cassetta degli attrezzi, il nostro approccio alle narrazioni storiche falsificate. Gli eventi storici infatti non possono essere affrontati solo con la ricostruzione, ma anche mostrando la costruzione delle narrazioni. In fondo, però, pensiamo d’aver fatto solo quello che dovrebbe fare chi fa storia: arrivare fino dove i documenti permettono d’arrivare”.