“Rubagalline”, “vigliacchi” e “rossi”: una storica risponde agli attacchi contro la Resistenza. Colombini: “La violenza? Va inserita nel contesto della guerra”
La storica torinese Chiara Colombini risponde ai luoghi comuni sempre più diffusi sulla Resistenza armata. In diverse gradazioni, l’ostilità contro il fondamento nazionale della vita democratica e repubblicana si esprime infatti nella frase “Anche i partigiani, però…”. Ed è da qui che l’autrice parte per rimettere al proprio posto i fatti avvenuti tra il settembre ’43 e l’aprile del ’45. Comincia con un’intervista il viaggio de il Dolomiti “Attra-Verso la Liberazione”
TRENTO. “Difficile, fragile, romantica, coraggiosa”. E ancora “appiglio che riemerge”, in quanto “cosa migliore che abbiamo avuto, e che abbiamo”. Sono queste i caratteri che Chiara Colombini, storica torinese e autrice del saggio Anche i partigiani però…, riconosce alla Resistenza, a cavallo del 76esimo anniversario della Liberazione. Di fronte alle vulgate che circolano nel dibattito pubblico italiano, infatti, si cerca di rimettere al proprio posto un paradigma centrale della convivenza democratica.
Troppo spesso, d’altronde, attorno alla Resistenza si sentono pronunciare giudizi sprezzanti, ormai ampiamente diffusi. “Inutili e vigliacchi”, responsabili della violenza che gli occupanti tedeschi riversano sulla popolazione, “rubagalline”, “assassini”, prevaricatori. E, soprattutto, “rossi”, tanto che il 25 aprile non sarebbe altro che un anacronistico “derby fra rossi e neri”. Lo strumento per rispondere a queste accuse? La storia.
Inserito nella collana di Laterza “Fact checking: la Storia alla prova dei fatti”, Anche i partigiani però… condivide con gli altri titoli (L’antifascismo non serve più a niente di Carlo Greppi – QUI l’articolo - E allora le foibe? di Eric Gobetti – QUI e QUI gli articoli - e Prima gli italiani! (Sì, ma quali?) di Francesco Filippi – QUI e QUI gli articoli) lo stesso identico obiettivo: riportare la storia e il suo metodo critico nel dibattito pubblico, sgombrando il campo da luoghi comuni, falsi miti e distorsioni che poco hanno a che fare con il nostro passato.
Colombini, storica dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, riconosce alla storia (così come gli altri storici sunnominati) una valenza che non è solo scientifica ma anche democratica. Una conoscenza del passato nella sua complessità e nelle sue sfaccettature permette infatti di raggiungere una maggiore maturità democratica, liberando il tavolo da discorsi che falsificano il passato e avvelenano il presente.
“Il titolo per certi aspetti è provocatorio, ma anche constatativo – spiega l’autrice, raggiunta al telefono dal nostro giornale – l’intenzione infatti non era tanto di suscitare un vespaio ma di partire da una constatazione: quando si sente parlare comunemente di Resistenza si sente anche questa frase, ‘Eh ma anche i partigiani, però…’. Un titolo così recupera tutte le gradazioni delle narrazioni contrarie alla Resistenza”.
Non è tanto dal dibattito sul “ritorno del fascismo”, dunque, che Colombini è partita, quanto dalla “battaglia di retroguardia” che si sta combattendo sul campo della memoria pubblica, con una sempre più nutrita schiera di posizioni critiche o contrarie a ciò che la Resistenza, in particolare quella armata, rappresentò. “Il presupposto da cui sono partita è che i punti di riferimento consolidati siano stati messi in discussione in maniera chiara, diffusa e impensabile fino a qualche tempo fa – prosegue – sono ricorrenti affermazioni che un tempo si sarebbero fatte solo in separata sede. Ma perché?”.
“Il clima in cui viviamo dipende da fattori vari, ma il discorso contrario alla Resistenza lo alimenta. Io provo, quindi, a confrontarmi con i luoghi comuni ampiamente diffusi, ad analizzarli e a cercare di riportare una serie di questioni al loro contesto, alla natura della Resistenza. E lo faccio con gli strumenti dello storico, non tanto con il lavoro d’archivio ma con la messe di studi sul tema”.
Il punto di partenza, come detto, è la parte più importante ma anche più messa in discussione del fenomeno resistenziale: la risposta armata agli invasori nazisti e allo Stato fantoccio della Repubblica sociale. “Ho cercato di scomporre i luoghi comuni che avvolgono la Resistenza armata, le matrici ideologiche e culturali da cui provengono ma anche i diversi livelli di ostilità. La critica a quella armata non ha paragone con nessun’altra forma di Resistenza, da quella civile agli internati militari. E anche tra chi non è contrario alla Resistenza, la tendenza è quella di metterla in secondo piano rispetto alle altre, a non soffermarsi nonostante sia stato l’elemento essenziale dell’immediato dopoguerra”.
Ma perché questa ostilità, manifestata in forme che vanno dall’accanimento alla marginalizzazione? “C’è sicuramente una difficoltà ad accettare la violenza con la sensibilità di oggi – continua Colombini – è difficile accettare di capire che i ‘buoni’ abbiano sparato. E non è importante capire se sia negativo o positivo, questo rifiuto della violenza, ma quanto sia improduttivo in termini storici perché non aiuta a comprendere una realtà diversa dalla nostra”.
L’offensiva pubblica contro la memoria della Resistenza trova a cavallo fra anni ’80 e ’90 un importante punto di svolta. “E’ un tornante in cui si cerca un punto di riferimento alternativo ad antifascismo e Resistenza – spiega la storica torinese – è comprensibile perché le forze politiche che si impongono sono estranee all’antifascismo. Si cercano dei paradigmi diversi e così, per costruire un nuovo orizzonte politico, si sostiene che serva una ‘memoria condivisa’. Si apre un mercato per cercare di giungere a un compromesso”.
“Gli attacchi alla Resistenza si innestano in questo contesto. Essa, con i suoi strascichi, serviva negli anni ’60 per colpire il Pci, ora è il contrario. La clava diventa il Pci per colpire l’antifascismo e la Resistenza, sostenendo che in questa vi sia un germe totalitario che la rende ambigua. È una rappresentazione monolitica della Resistenza”.
Tale rappresentazione cancella ogni contrasto interno al Comitato di liberazione nazionale e in nome dell’anticomunismo, che divise i protagonisti della lotta partigiana, esaurisce ogni sfaccettatura delle motivazioni e delle aspirazioni che percorsero quei venti mesi dal settembre 1943 all’aprile 1945. “Tutte le volte che si sente un discorso contrario alla Resistenza c’è di mezzo un ‘finalmente’. Come a dire che finalmente si è rotto un tabù. È una cosa sorprendente, perché se è vero che a lungo la Resistenza ha rappresentato il discorso egemonico, resistendo anche alla Guerra Fredda, dall’altra c’è una grande varietà di modi di raccontarla. È difficile quindi parlare di narrazione monolitica, con cui gli avversari sarebbero stati zittiti. Le memorie contrarie all’antifascismo hanno spazio sin da subito. È quindi una posizione insostenibile quella del racconto monolitico e totalitario della Resistenza”.
“Un altro aspetto riguarda poi la categoria degli storici, che secondo questa posizione avrebbe ripetuto in maniera pedissequa la narrazione distorta e piena di menzogne sulla Resistenza – prosegue – non è vero. La storiografia è cambiata e si è evoluta. L’esistenza di una vulgata immobile e monolitica, anche in questo caso, dunque, non convince”.
Di fronte all’imporsi di memorie anti-antifasciste, pertanto, la soluzione è occupare nuovamente gli spazi con gli strumenti della storia. “Più ci si allontana dalla Resistenza più diventa necessario non tanto preservare la memoria ma aumentare la conoscenza storica – conclude Colombini – senza questo elemento la memoria diventa asfittica e tende a sclerotizzarsi. Io ho fiducia negli strumenti della storia ma la strada è dura”.
Questo articolo è il primo di una serie: Attra-Verso la Liberazione vuole essere una lente tramite cui vedere la lotta resistenziale senza le distorsioni del falso mito della memoria condivisa e senza l’agiografia che per decenni ha contraddistinto la narrazione della conquista della libertà contro la tirannide nazi-fascista. La grandezza della scelta partigiana, infatti, emerge dallo stesso racconto del contesto, nella sua durezza, nella sua complessità e problematicità, nel suo immenso e meraviglioso valore.