Mafiosi o latin lover, uniti o divisi? Chi sono gli italiani? Filippi racconta il difficile percorso di formazione dell’identità nazionale
Messo sotto la lente regionale del Trentino Alto Adige, il paradigma nazionale italiano mostra tutte le sue crepe. Il processo di costruzione identitario, d’altronde, non si dimostra affatto facile e non a caso l’Italia dovrà ricorrere a diverse soluzioni nel tentativo di "dare forma" al proprio popolo. Francesco Filippi ci racconta il suo ultimo libro, “Prima gli italiani! (Sì, ma quali?)”
TRENTO. Tentativo di “sgombrare il campo” dalle macerie dell’abuso pubblico della storia, di mettere sotto la lente d’ingrandimento uno slogan tanto abusato quanto anacronistico (QUI la presentazione), “Prima gli italiani! (Sì, ma quali?)” sviscera il percorso della costruzione nazionale italiana mediante gli strumenti della disciplina storica. L’autore, lo storico levicense Francesco Filippi, ricostruisce così i tribolati passaggi che hanno portato alla formazione dell’Italia così come la conosciamo, rimettendo sul tavolo un interrogativo inevitabile: a che punto siamo?
È così lo scollamento fra gli slogan sovranisti dell’attualità e la crisi delle narrazioni nazionali a far scaturire una riflessione cogente quanto necessaria. “Tentare di affrontare questi temi con delle letture costruite da uomini tra Settecento e Ottocento per uomini vissuti tra Settecento e Ottocento – si legge nella conclusione – non è ‘far politica’, ma tutt’al più antiquariato”.
L’identità di questo popolo frammentato, d’altronde, da sempre corre in mille rivoli, in ramificazioni che con difficoltà si è cercato di tenere assieme. Da un’unificazione operata da una dinastia regionale, si è così passati al difficile compito di ridurre la complessità, facendola rientrare in un unico grande contenitore: l’italianità. Ma questo tentativo è riuscito?
I casi regionali possono dare una risposta. “Il Trentino Alto Adige entra tardi nel racconto nazionale e questo finisce per avere un peso specifico molto forte – spiega Filippi al nostro giornale – il paradigma nazionale italiano si impone in un momento particolare, quello fascista, che porta la regione a conoscere subito il suo lato più brutale. È il lato dei confini sacri, della sacralità della bandiera, degli eroi. E così la società trentino-tirolese finisce per essere polarizzata”.
“Il Trentino, infatti, non è più minoranza, ma maggioranza, e lo fa pesare. I germanofoni invece devono fare i conti con l’essere una minoranza in un momento in cui queste vengono schiacciate. Il Ventennio finisce per spaccare la regione, con l’imposizione di una lettura di ri-colonizzazione e di simboli non propri – prosegue – il Trentino Alto Adige è al contempo vetrina e banco di prova del fascismo e questo mette in crisi la convivenza, portando a fenomeni come le Opzioni”.
La guerra trova in questo territorio di frontiera, corridoio tra il mondo latino e quello tedesco, un “campo di battaglia” tra nazionalismi confliggenti e competitivi. E le conseguenze si fanno sentire con forza anche nei decenni a venire, nell’ambito più vasto di un’Italia percorsa dalle tensioni centrifughe – come testimoniato, da nord a sud, dall’ascesa dei movimenti separatisti. “In Alto Adige si assiste allo scontro fra due nazionalismi forti, con da una parte gli italiani e dall’altra i tedeschi. Ma non è un processo che nasce in quel momento”, procede lo storico.
“Dalla seconda metà del XIX secolo fino agli anni ’80 del ‘900 qui si confrontano i nazionalismi. Negli anni ’50 la spaccatura diventa più profonda e la regione finisce per essere travagliata da grandi narrative che confliggono, rispondendo dall’altra con il tentativo di dar vita a narrazioni sub-nazionali. Negli anni ’70 si finisce per evidenziare la peculiarità del territorio, così da giustificare l’autonomia. Il cappello della Guerra fredda aveva esasperato le divisioni e accanto alla narrazione nazionale hanno preso forma delle narrazioni locali. Ma quali sono le ragioni del nostro stare assieme? Come si giustificano? A me pare che si caratterizzino per il tentativo di non far niente. Ma la peculiarità da sola non produce gli anticorpi necessari per garantire l’unità tra le due entità provinciali”.
Da parte sua, la narrazione nazionale italiana, di fronte alle sue difficoltà interne nella costruzione di un’unica identità, si è trovata a doversi proiettare verso l’esterno. E come, nel piccolo, ha agito in Alto Adige, con diverse modalità lo ha fatto anche nelle sue “avventure” coloniali, aggredendo altri popoli e Paesi alla ricerca del “proprio ruolo” nell’Europa degli imperi. Colonialismo e imperialismo, dunque, vengono presentati come risposte ai fallimenti interni utili a rafforzare la coscienza di un popolo di per sé frammentato.
“L’imperialismo è la chiave di volta del nazionalismo identitario. Quando le divergenze sono troppe forti – continua – ci si proietta verso l’esterno. Si parla di quello che ci divide dagli altri. Si racconta agli italiani che si deve partecipare alla conquista bianca dell’Africa. Si conquista l’alieno per differenziarsi. Le avventure coloniali, il colonialismo fascista, le leggi razziali, sono dimostrazioni di questo tentativo di definirsi attraverso l’altro. E così lo sono le missioni di pace in epoca più recente o il confronto con l’altro che giunge in Italia per i flussi migratori”.
Nell’Italia degli anni ’60, dopo che il processo della costruzione identitaria è principalmente passato dalle scuole e dall’esercito, è la pubblicità a creare un’omologazione. I gusti e le abitudini degli italiani vengono resi omogenei, così come le aspettative. “Esistono vari modi di comunicarsi agli altri e tra questi la pubblicità serve a identificare e a ritagliare un pubblico di consumatori, a raccontare una comunità a sé stessa affinché si riconosca – spiega l’autore – la comunità di sentimenti in cui si riconoscono gli italiani è di quelli che hanno la lavatrice, che mangiano le merendine a colazione, in cui si riflettono degli stereotipi radicati come quelli sul ruolo della donna in casa. È un modo tecnologicamente avanzato per raccontare sé stessi e che tutt’oggi ci caratterizza. Un racconto più subdolo degli altri, perché non stimola la riflessione”.
Mangiatori di pasta o di pizza, suonatori di mandolino, mafiosi, mammoni e latin lover. Gli italiani, popolo di migranti, entrato in contatto con molteplici realtà, è finito per essere racchiuso in alcuni diffusi e inossidabili luoghi comuni, a cui loro stessi, talvolta, hanno finito per credere. “Il primo motivo è antropologico. Il meccanismo dell’identità è biunivoco, un equilibrio tra ciò che gli altri dicono di noi e quello che diciamo di noi stessi. Il motivo storico, invece, sta nel fatto che per lungo tempo il popolo italiano è emigrato, è entrato in contatto con gli altri e ha subito l’immagine che è stata data da fuori. Si finisce così per pensare di essere qualcosa che gli altri proiettano su di noi”.
Tribolato, incompiuto, indeterminato, il processo di costruzione dell’identità nazionale si è scontrato con ostacoli sociali, politici, economici e culturali, da cui, con l’edificazione dell’impalcatura europea, ci si è cercato di liberare. L’Europa, dagli albori, è finita per rappresentare per gli italiani un riparo dai problemi nazionali, un’isola verso cui navigare approdando ad una realtà che li superi e li risolva. Ma il processo di costruzione dell’identità europea, nondimeno, ha finito per soffrire altrettante problematiche.
“Tra gli italiani l’Europa gode sin dai suoi esordi di una fiducia forte. L’Europa coccola un Paese che partecipa alla sua formazione dal principio, assegnandoci aiuti concreti. È, soprattutto, un modo per salvarsi dai problemi cronici dell’italianità e lo sarà per un discreto lasso di tempo. Ultimamente, però, l’identità europea è entrata in crisi, da una parte per la crisi economica globale e dall’altra per il fallimento della retorica europea, del racconto che l’Ue fa di sé stessa. Uno dei suoi più grandi problemi è proprio il fatto che non si sappia raccontare. Al netto di un bilancio più che positivo, finisce per essere considerata dalle persone comuni nient’altro che quell’entità che misura la lunghezza dei cetrioli, per dirla in maniera semplice”, continua Filippi.
Seriamente gravato dalle ipoteche fasciste, che hanno reso i simboli identitari invisi a buona parte della popolazione, il processo di costruzione dell’italianità trova negli anni ’80 un ultimo importante slancio. “E’ un momento di ritorno di fiamma in un percorso di anti-climax. A fine anni ’70 il modello resistenziale entra in crisi, così come le due grandi narrazioni sub-nazionali dei comunisti e dei democristiani. L’Italia di Craxi ricorre così ad attributi di carattere pre-politico, a un’italianità che non è quella classica del nazionalismo post-fascista ma che comunque ha degli elementi in comune, pensiamo al leaderismo del presidente del Consiglio”.
“Il simbolo di questa Italia è la nazionale del 1982 che vince il mondiale, in cui la bandiera torna a sventolare e a unire la comunità quando gli ‘anni di piombo’ sono tutt’altro che finiti – conclude – questo ritorno di fiamma arriva fino al fallimento della politica ideologica di inizio ’90. E non è un caso che il partito che vincerà le elezioni e segnerà la storia successiva utilizzi come nome uno slogan calcistico, ricorrendo ad un orgoglio nazionale pre-politico, più simile al tifo da stadio. È questo il peccato originale della cosiddetta ‘seconda Repubblica’”.