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L'8 settembre '43, quando l'annuncio dell'armistizio gettò il Paese nel caos. Lo storico Greppi: "Turning point che portò la guerra in casa"

L'8 settembre 1943 il generale Pietro Badoglio annunciò alla Nazione la firma dell'armistizio siglato segretamente qualche giorno prima con gli Alleati. Il Paese e le truppe sparse in giro sui vari fronti vennero gettati nel caos. Lo storico Carlo Greppi: "La popolazione venne posta di fronte a una scelta di attendere o accelerare l'avanzata anglo-americana. Fu la scelta per una violenza giusta. Altro che 'morte della patria', quella era già morta da un pezzo"

Di Davide Leveghi - 08 settembre 2020 - 12:09

TRENTO. “Dopo quel giorno un'intera generazione fu chiamata a compiere una scelta. I tedeschi, già preparati per l'evenienza, occuparono velocemente la penisola. Gli Alleati erano sbarcati ormai da tempo. Gli italiani, a quel punto, si trovarono la guerra in casa, una guerra che sarebbe divenuta di lì a breve civile”. Erano già passati diversi giorni dall'armistizio, firmato nel paesino siciliano di Cassibile, quando via radio i comandi del Regio esercito comunicarono la fine delle ostilità con le forze angloamericane.

 

Era la sera dell'8 settembre 1943, quando ai microfoni dell'Eiar il generale e primo ministro Pietro Badoglio proclamava “l'impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria”, e, “nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione”, la scelta di schierarsi con il nemico dei tre precedenti anni di guerra. L'Italia e le truppe sparse sui vari fronti di guerra, di contro, si trovarono di fronte al disastro. L'abbandono totale dei soldati e la mancanza di comunicazione sul da farsi sprofondò l'esercito nel caos, mentre il Paese sarebbe stato di lì a breve spaccato in due e attraversato da due guerre: al centro-sud con l'avanzata degli anglo-americani frenata dalle truppe tedesche, al centro-nord con lo scoppio della lotta di guerriglia partigiana.

 

“L'8 settembre è un evento parzialmente inaspettato – spiega lo storico Carlo Greppi – che getta il Paese nel caos. Negli anni precedenti, infatti, l'Italia aveva combattuto al fianco dell'alleato nazista in una guerra di aggressione. Le forze armate, quel giorno, si trovarono senza ordini. Su tutti i fronti ci furono casi isolati di scontri con le truppe tedesche, ma nella maggior parte dei casi ciò che avvenne fu l'imprigionamento dei circa 800mila soldati italiani, deportati in gran parte in Germania come internati militari”.

 

Ciò che accadde sulla penisola, invece, fu che la guerra venne portata in casa – continua – dopo l'8 settembre assistiamo alla formazione graduale del partigianato, con poche centinaia di giovani e non solo che imbracciano le armi e vanno in montagna, ingrossando mano a mano le proprie fila, mentre prende vita la Repubblica sociale italiana. Sono le donne, in questo momento, a incarnare al meglio la scelta di fronte a cui vengono messi gli italiani nelle zone occupate. Saranno le uniche a fare una scelta pura, non essendo chiamate alle armi, distinguendosi per un'incredibile operazione di maternage di massa, come lo definisce la storica Anna Bravo, dando ospitalità ai ricercati. Così pongono le basi molto concrete per la Resistenza, che si organizza a livello politico come a quello militare”.

 

Ti ricordi la fuga ingloriosa/ con il re, verso terre sicure/ siete proprio due sporche figure/ meritate la fucilazion” (da “La Badoglieide”, canzone satirica composta da Nuto Revelli e altri membri di una banda cuneese di Giustizia e Libertà)

 

Mentre infatti i soldati italiani si trovano di fronte alla scelta di proseguire la guerra inquadrati nell'esercito tedesco o di consegnare le armi ed essere deportati – celebri sono le vicende di stragi compiute ai loro danni nell'isola di Cefalonia, con vicende personali che avevamo raccontato in un nostro articolo – la popolazione della penisola si trova in una situazione di vuoto istituzionale. Il re, con la corte al seguito, e i comandi dell'esercito fuggono a Brindisi. Mussolini, imprigionato dopo il 25 luglio (caduta del fascismo) sul Gran Sasso, viene liberato da un commando tedesco il 12 settembre. Passano poco più di 10 giorni e nella parte centro-settentrionale del Paese fa capolino la Repubblica sociale italiana, uno Stato fantoccio aggressivo e brutale – in Trentino, come in tante altre province di confine, vennero invece create delle zone cuscinetto di fatto annesse al Reich.

 

Quel passaggio d'inizio settembre fu nodo decisivo dei destini futuri degli italiani. “Come sottolineato da molti storici, tra cui Giovanni De Luna – illustra Greppi – l'8 settembre rappresentò un vuoto istituzionale. Una sorta di turning point, se vogliamo utilizzare un termine cinematografico. Le persone furono costrette a chiedersi a quali istituzioni dovessero obbedire o disobbedire. Come ricorda Claudio Pavone, furono costretti a scegliere. Ben presto ci saranno infatti dei governi in conflitto, anche se le forze in campo sono di più. Abbiamo il governo al Sud, la monarchia e gli Alleati, l'Rsi e gli occupanti nazisti, oltre, chiaramente, al Cln”.

 

In un polverone di sentimenti e risentimenti tutti si trovano a dover decidere. La maggior parte della popolazione, tra la speranza che la guerra finisca al più presto e la paura, decide di non decidere, oscillando in un'ampia zona grigia. Una minoranza, invece, guidata dai vecchi antifascisti e rimpolpata da molti giovani uomini e donne, si organizza per combattere il nazifascismo”.

 

L'interpretazione storiografica dell'8 settembre ha per anni creato dibattito. Tra le più note, v'è quella di chi considera quel momento “la morte della patria”, la catastrofe che avrebbe rotto in mille pezzi l'identità degli italiani (Ernesto Galli Della Loggia). “La patria – risponde Greppi, autore recentemente di un libro che ripercorre le vicende dell'antifascismo per rafforzarne nell'attualità il ruolo democratico (L'antifascismo non serve più a niente, 2020, Laterza) – era già morta da un pezzo. L'Italia aveva partecipato alla politica bellica aggressiva e imperialista del nazifascismo. Al contrario, semmai, l'8 settembre finì per essere fondamento della rinascita di un'idea di patria inclusiva e rigenerante”.

 

O Badoglio, Pietro Badoglio/ Ingrassato dal Fascio Littorio/ Col tuo degno compagno Vittorio/ Ci hai rotto abbastanza i coglion/ […] Se Benito ci ha rotto le tasche/ Tu, Badoglio, ci hai rotto i coglioni/ Per fascisti e pei vecchi cialtroni/ In Italia più posto non c'è

 

Le speranze di parte della popolazione, di quella che partecipa o sostiene la Resistenza, verranno per molti tradite. Nel dopoguerra, infatti, ci si confronterà con le difficoltà nel riformare lo Stato. Vittorio Emanuele e Badoglio, da parte loro, dimostrano in questo momento un'immensa codardia. Incapaci di assumersi le responsabilità della propria scelta, portano a conseguenze devastanti per il Paese. Si pone sin da subito, visto l'appoggio della monarchia al fascismo e la carriera che Badoglio si costruisce negli anni del regime, il grosso tema della continuità dello Stato. A fare un discorso di senso contrario, d'altra parte, sono invece coloro che avevano dato battaglia da sempre al fascismo e quella generazione di uomini e donne che formano parte della Resistenza”.

 

Il rapporto tra le forze in campo, d'altro canto, non si sviluppa certo in forma lineare. La violenza, per molti, si pone come unica alternativa percorribile per abbattere la tirannia nazifascista. “C'è un rapporto complesso del governo del Sud con la Resistenza, così come degli Alleati – prosegue Greppi – queste difficoltà a relazionarsi, d'altronde, si rifletterà nel dopoguerra nella criticità di far sentire a sud di Roma l'importanza che svolge la Resistenza nel centro-nord. C'è una distorsione percettiva che durerà fino ad oggi”.

 

“Furono due le strade che si potevano percorrere al centro-nord: o quella attendista, di aspettare la fine della guerra, o quella di accelerarne la fine. In questo caso si sapeva che si poteva morire e si doveva uccidere. C'è un groviglio di dilemmi che non può essere circumnavigato. La scelta di combattere il nazifascismo, con una violenza che è comunque difensiva, come evidenzia Pavone, è quella di una violenza giusta. D'altronde, fatto salvo per l'esperienza delle Repubbliche partigiane, la Resistenza si trovò ad esempio di fronte al problema di dove e come tenere i prigionieri. Cosa farne? Certe decisioni dovevano essere compiute in fretta”, conclude.

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