Centrosinistra, che batosta. Ma a forza di ''fare i superiori'' le persone guardano altrove: si torni tra la gente e si parta ''domani'' a costruire un'alternativa credibile
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
E adesso? Adesso è grama. Ma non è tecnicamente più grama della passata legislatura perché i rapporti di forza tra maggioranza e minoranza erano impari ieri (premio di maggioranza a destra) e saranno impari anche domani. Per altri cinque anni: lunghissimi. Cinque anni che però diventeranno dieci, o cento, o mille se il voto domenica non imporrà ai perdenti l’urgenza di cambiare. Ma cambiare, non fare finta. L’Alleanza costruita attorno al ciuffo ribelle (ma solo il ciuffo, purtroppo) di Francesco Valduga è uscita dall’urna del 22 ottobre che…sarebbe stato meglio restarci. Meglio restare dentro l’urna, nascosti. Sigillandola quell’urna di un dolore più che prevedibile. Per i democratici autonomisti – così si erano battezzati - la distanza dall’armata Fugatti è stata abissale. Ma l’abisso non è solo numerico, seppur di una matematica capace di tramortire.
Il voto non racconta una storia recente. Semplicemente, materializza le magagne di un passato sia prossimo che più remoto. In Trentino si sono vieppiù allontanate due società, due culture, due modi d’essere e di fare. Due società che viaggiano in parallelo senza comunicare. Da una parte c’è, “suonato” già molto prima del voto, un Trentino che intitolandosi con altezzosità il “progressismo” resta al palo (anzi arretra) e non capisce il perché. Dall’altra parte, in progressiva e per adesso inarrestabile ascesa, ecco quel Trentino che i progressisti tacciano di arretratezza e irrecuperabilità. Di quell’eccesso di faciloneria, presunzione o boria il regressismo se ne frega. I progressisti stentano ad uscire dalla fascia protetta (troppo protetta e troppo fuorviante) di chi la pensa allo stesso modo. Lo fanno “schifando” (non nelle parole forse, ma nel sentimento sì) tutti quelli che non si indignano come si indignano loro.
Prigionieri di questa tendenza alla supremazia dell’autoisolamento (per altro nemmeno felice visto il tasso di litigiosità sottotraccia) i progressisti sono portati al rito del giudicare, dell’etichettare, del catalogare una società sempre più complessa e contradditoria. Le categorie? Due sole: buoni o cattivi. Laddove i buoni sarebbero paladini di diritti, ambiente, solidarietà, efficienza dei servizi, eccetera eccetera. Laddove, al contrario, i cattivi negherebbero i diritti, la solidarietà, l’ambiente e perfino gradirebbero l’inefficienza dei servizi. Non è un caso che a débâcle ancora in pieno svolgimento sia capitato di sentire commenti come il seguente: “Hanno rivotato la Segnana. Adesso al primo che si lamenta della sanità lo mando a quel paese”. Quando sarebbe il caso di parlargli ancor di più al presunto masochista. Se non può curarsi e gode ci sarà pure un perché. Anche senza scomodare (non c’abbiamo una lira da buttare) l’armo cromista della segretaria nazionale Pd qui si crede che nella società trentina i colori belli e quelli brutti siano intrecciati e a volte indistinguibili. Si crede che i dubbi, chiaroscuri, siano al centro della società: altro che certezze. Il fatto è che al centro non c’è un confronto: franco, onesto e disponibile alle ragioni altrui.
Qui si crede anche, rammaricandosi, che il campo progressista consideri uno scandalo ogni perplessità, ogni teoria, ogni sparata scopiazzata dai talk tv. Dai dubbi e dalle sparate si fugge con ludibrio senza accorgersi che ci si allontana da quella società che vorrebbe/dovrebbe provare a convincere. Così il progressismo si fa alieno. Qui davvero non si crede che un leghista, un fratello o una sorella d’Italia (si badi, si parla di votanti, non di militanti invasati) siano per forza oscurantisti medioevalizzanti. Gente che va data per persa alla causa della coscienza. Allo stesso modo non si crede che un piddino, un campobasista, un giallo casautonomista, un sinistro puro, un verde archelogico, abbiano solo il polo positivo. La verità in tasca e l’eloquio sicuro nella sicumera può risultare lontano se non respingente. Qui si crede, insomma, che il Trentino meriti meno manicheismi, meno solennità, più normalità. Compresa la normalità scomoda
Qui si spera che il voto insegni finalmente qualcosa alla parte cui siamo nonostante tutto vicini (il campo progressista). Qui si spera che non inizi una legislatura numericamente traumatica così come è stata condotta per cinque anni. E cioè consistenza dentro l’aula e inconsistenza fuori dall’aula. Nessuno, davvero nessuno, mette in dubbio il lavoro faticoso e frustrante che la minoranza si è sobbarcata (certo, per qualche migliaio di euro al mese) dal 2018 al 2023. Ma un doveroso lavoro dentro l’istituzione (il consiglio provinciale, le commissioni) ha un senso se si proietta all’esterno con costanza, coraggio, creatività, capacità di interloquire e di mobilitare. Ha senso se all’esterno della Provincia c’è chi battaglia, chi costruisce, chi amplifica e mobilità. Ha senso se l’Alleanza democratica e autonomista non sarà stato l’ennesimo scherzo/espediente elettorale.
Dare un senso di cambiamento ad un futuro che per il progressismo sembra drammaticamente segnato in negativo è possibile solo considerando da subito gli eletti come riferimenti importanti ma non esclusivi. Va costruita già oggi un’alternativa da mettere in campo tra cinque anni con possibilità di successo. Certo, mica si potrà arrivare di nuovo pochi mesi prima del voto ad indicare un candidato. Certo, il futuro anti Fugatti non si potrà indicare domani. Ma dopodomani sarebbe già tardi. Sarebbe già visto. Sarebbe già perso. Serve, subito che è già tardi, provare a ragionare fuori dai microcosmi assuefatti a linguaggi inadatti e anacronistici. Servono metodi meno inadatti e meno anacronistici. Urgono luoghi meno inadatti e meno anacronistici. Alla politica serve un poco di “improprio” perché il “proprio” ha da tempo fallito.
Al progressismo non servono né le nostalgie né i maldestri tentativi di usare male e senza alcuna personalità le tecniche comunicative del futuro. Serve il coraggio di fare quello che per troppo tempo si è schifato, giocando la partita dei valori e degli ideali in campi rischiosi, sconosciuti, forse perfino ostili ma inevitabili. Se si farà questo, se non si concretizzerà subito un’Alleanza che non limiti l’inclusività delle idee (comprese quelle eretiche) al solo periodo elettorale, beh forse qualcosa di nuovo e di buono potrà accadere. Altrimenti ciao e prateria astensionistica. Alla finestra c’è molto deja vu. C’è qualche autoproclamatosi “salvatore della patria” che dopo non aver mosso un mignolo per aiutare davvero Valduga, si aspetta che nel 2028 lo invochino in ginocchio. Dietro la finestra, però, c’è un calendario in cui ciò che appare lontano è invece dietro l’angolo. Se il progressismo non si dà una mossa smettendola di parlarsi addosso dentro conventicole amicali la prossima batosta toccherà alle città e i salvatori della patria se la daranno a gambe. Per darsi una mossa urge che gli eletti progressisti facciano squadra, uniti senza trucchi e senza inganni. Perché le mosse funzionino serve una squadra “fuori” dalla Provincia: presente, ampia, motivante. C’è da lavorare, oggi, per un domani meno gramo. Se non si capisce oggi che è finito lo spazio dei distinguo, dei “si ma”, dei “vedremo” non ci sarà un domani.