Un rifugio che arriva dal Canada: il Melano, prezioso lascito delle Olimpiadi invernali di Torino 2006
Le ricadute delle Olimpiadi sul territorio possono anche essere positive: Casa Canada, eredità di Torino 2006, invita a realizzare strutture e infrastrutture di carattere duraturo e di interesse comunitario
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Nel 2006, tra Torino e le montagne da cui il capoluogo piemontese è parzialmente incorniciato, si è svolta la XX edizione dei Giochi olimpici invernali.
In quei giorni la città fu trasformata in un’enorme vetrina per promuovere lo sport e i suoi valori, ma anche e soprattutto per promuovere il territorio. L’ombra delle strutture abbandonate era ancora lontana e per Torino e le sue montagne si prospettava un radioso avvenire.
Non solo il Piemonte, però, aveva lo sguardo rivolto al futuro. Il Canada, che avrebbe ospitato l’edizione successiva dei Giochi, ottenne il permesso di realizzare, in piazza Valdo Fusi a Torino, la sua personale vetrina: Casa Canada. Casa Canada doveva servire come rampa di lancio a Vancouver 2010.
La “vetrina canadese” fu costruita interamente in legno di pino strobo, ricavato da conifere ammalate e quindi destinate all’abbattimento. A sostegno della struttura, come una sorta di albero maestro, venne issato un massiccio tronco di cedro, trascinato dall’oceano sulla costa canadese e lì prelevato. Una vetrina tutta in legno, dunque, forse per consolidare l’idea un po’ stereotipata che il mondo si è fatto del Canada: terra di boschi, laghi, orsi e neve.
Quando allo Stadio Olimpico una coreografica cerimonia ha chiuso il sipario su Torino 2006, Casa Canada fu smontata e donata, in segno di riconoscenza, al Comune, il quale a sua volta la regalò alla Comunità Montana Pinerolese Pedemotano che se ne servì per realizzare il nuovo rifugio Melano. Quindi oggi Casa Canada (di proprietà del Cai) si trova a 1060 metri, con le sue levigatissime pareti in legno sempre appoggiate a quel cedro arrivato dal mare e ora sentinella della montagna.
Se di fronte al rifugio si apre la pianura e più a ovest svetta l’elegante Monviso, dietro incombe, verticalissima, la Rocca Sbarüa: una parete in gneiss sfruttata sin dagli albori dell’alpinismo torinese e nel tempo arricchitasi di vie sempre più difficili e spittate. Qui si sono sbizzarriti scalatori del calibro di Gabriele Boccalatte, di Giusto Gervasutti, di Gian Piero Motti, di Gian Carlo Grassi, di Guido Rossa, e sempre qui tre amici, Primo Levi, Sandro Delmastro e Alberto Salmoni, venivano a prendere confidenza con le verticalità durante le mezze stagioni.
Il toponimo Sbarüa significa “roccia che spaventa” e in effetti, a guardarla, soprattutto nella sezione più gialla e centrale, questa parete si alza con decisione, sporgendosi lievemente in avanti come una civetta curiosa; e proprio come una civetta sembra voglia planare da un momento all’altro.
“Lo Sbarüa – racconta Levi nel Sistema Periodico – è spaccato dalla base alla cima da una fenditura che si fa salendo via via più stretta, fino a costringere lo scalatore a uscire in parete, dove, appunto, si spaura, e dove esisteva allora un singolo chiodo, lasciato caritatevolmente dal fratello di Sandro”.
Casa Canada, all’ombra di questa parete dove si sono “spauriti” e divertiti tanti alpinisti, si è fatta quindi rappresentazione concreta di un lascito duraturo dei Giochi olimpici: è un piacere raccontare queste storie, perché invitano ulteriormente a promuovere delle Olimpiadi che sappiano offrire al territorio strutture e infrastrutture di carattere duraturo e di interesse comunitario.