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Storia

Un grande sasso incastrato nel tronco di un faggio a quattro metri d'altezza: quale il legame con partigiani e Resistenza?

Una pietra piatta, a quattro metri d'altezza, inglobata nel tronco di un grande faggio. Una storia di Resistenza e memoria, incontrata per caso nei boschi di Cairo Montenotte

di
Luigi Torreggiani
25 aprile | 12:00

Il cielo si è improvvisamente incupito. Da nord arrivano tuoni profondi, le cui vibrazioni risalgono le colline facendole tremare. Dobbiamo muoverci, un forte temporale presto investirà questa zona delle Langhe che in pochi conoscono, oltre il Piemonte, in territorio ligure: lunghe gobbe protese verso il mare.

 

Prima di risalire sul fuoristrada mi volto ad osservare per l’ultima volta il grande faggio. Visto così, in controluce, fa ancora più impressione: i suoi rami, contorti dalle brezze di crinale, nascondono quasi del tutto quella strana e insolita presenza che siamo venuti a cercare fin qui: una pietra.

 

Scosso da una raffica di vento, sento infilarsi nei miei pensieri due figure, che immagino passeggiare proprio di fronte a me, tra le lisce cortecce dei , come chiamano da queste parti i faggi.

 

 

Sono un uomo e una ragazzina, che camminano tra le piante di crinale.

 

Lui sorregge con una mano un cestino abbastanza pesante, nell’altra ha un bastone con il quale solleva piano le foglie umide. Lei ha soltanto un piccolo zainetto sulle spalle, dai colori accesi, firmato da qualche brand alla moda.

L'uomo procede lento, con il capo chino verso il suolo. Ha insegnato a fare così anche a lei. “Per trovare i funghi bisogna essere concentrati, attenti, scandagliare il terreno metro per metro”, le aveva ripetuto per l'ennesima volta prima di partire. Ma lei proprio non riesce a seguire quei preziosi consigli. Al marrone delle foglie marce e delle cappelle dei funghi preferisce di gran lunga le nuvole e l’azzurro del cielo, che si mischiano alle strane forme dei rami. Così procede con il naso rivolto all’insù e i piedi incespicanti tra le radici sporgenti.

 

Ad un certo punto si ferma, rimane immobile e pensierosa al di sotto di un tronco enorme, contorto, gibboso. Tra i rami, a quattro o forse cinque metri d’altezza, scorge qualcosa di insolito: una grande pietra grigia, che sembra infilata a forza nel tronco dell’albero. Chiama l’uomo e le mostra quell’oggetto misterioso: “Come mai un sasso così grande è finito lassù?”

 

Lui rimane attonito, pensieroso, non riesce a spiccicare parola. Più che riflettere su una possibile e realistica soluzione a quel complicato quesito, cerca frettolosamente di inventarsi una storia, una scusa. Non vuole affatto mostrarle di non avere la più pallida idea di come possa essere finita una pietra di tali dimensioni là in alto, tra i rami di un vecchio faggio. Ma mentre goffamente prova a farfugliare qualcosa la sente correre, verso un altro curioso oggetto che ha appena visto spuntare nel bosco, poco distante. È una statua grigiastra, a forma di Italia, macchiata a strisce scure dalla colatura dei decenni. C’è una piccola foto di un volto oramai irriconoscibile e una scritta che segue le forme della penisola.

 

Nella seconda quindicina del giugno 1944 un gruppo di giovani della risorta Italia, ribelli al giogo nazifascista, qui davano origine alla gloriosa Brigata Savona intitolata al caduto Furio Sguerso.

 

 

L’uomo raggiunge la ragazzina, osserva quel vecchio monumento ormai quasi avvolto dalla vegetazione e improvvisamente ricorda. Una voce di paese, tramandata tra le panche della chiesa il bancone dell’osteria, che ha sentito dal padre, o dalla nonna, forse è stato lo zio. Non importa: ora è riaffiorata, liberata dai labirinti del tempo.

 

Tornano così al grande faggio. Lui le dice che è il posto giusto per sedersi e mangiare qualcosa. Poi le indica la pietra sopra alle loro teste e le sussurra serio: “Quel sassone si chiama memoria”. Lei non capisce, ma non smette di osservare la strana escrescenza.

 

“Il faggio, in ottant’anni, si è quasi mangiato la pietra, stagione dopo stagione, anello dopo anello. Proprio come il tempo, che piano piano si sta mangiando la memoria”, dice lui.

 

“Memoria di cosa?”, chiede allora la ragazzina.

 

“Di quei giovani di cui parla il monumento, i Partigiani, li hai già studiati, vero?”, risponde l’uomo. “Una volta arrivati qui, al Ciànlàz, dopo essersi accampati sul Montebri e poi a I Termu, avevano deciso di installare un nuovo campo. Era un luogo remoto, abbastanza sicuro, da cui potevano osservare le valli tutt’attorno: verso I Ravagni, a nord, e il Vallone della Ferranietta, a Sud. Per creare i posti di vedetta avevano incastrato delle grandi pietre piatte tra i rami dei faggi. Si sedevano comodi lassù, a turno, per scandagliare ogni movimento nei dintorni. Dopo la guerra, negli anni, le pietre sono cadute dai rami, ma una no, è rimasta incastrata. E l’albero crescendo l’ha stretta a sé, iniziando ad inglobarla nei suoi tessuti, a mangiarsela. Me ne aveva parlato qualcuno, tanti anni fa, di questa pietra, ma non sono mai salito a cercarla. E poi me ne sono completamente dimenticato, ho perso un pezzo di memoria. Oggi, come al solito, non hai trovato neppure un bülè… ma qualcosa di molto più prezioso, che potrai conservare per sempre, se lo vorrai”.

 

“La memoria?”

 

“La memoria, sì. Un pezzo di memoria, che ha la forma di una pietra inglobata in un albero”.

 

 

Il temporale è arrivato e ora scarica sul parabrezza del fuoristrada delle palline bianche: una piccola tempesta di neve a fine aprile, tra gli alberi con le foglie ormai emesse quasi del tutto. Emiliano Botta, Dottore Forestale e animatore della gestione dei boschi locali insieme agli altri partner del progetto IN VOUDERM, mi ha parlato del faggio e della pietra alla fine di una lunga giornata di lavoro. La storia è uscita per caso, insieme ad un fiume in piena di parole: toponimi, aneddoti, idee, progetti. È fatto così: un po’ come nella lettura dei libri di Jack Kerouac, una chiacchierata con lui è un ininterrotto flusso di coscienza strettamente legato al suo territorio, che conosce metro per metro.  

 

“Mi ci devi assolutamente portare!” gli ho detto deciso, fermando quel fiume di pensieri appena ho sentito nominare del faggio con incastrata la pietra del posto di vedetta partigiano.

“So dov’è il posto, ma non saprei proprio individuare la pianta esatta”, ha risposto lui. Così ha preso il telefono e chiamato un compaesano di Rocchetta. Le indicazioni, in dialetto, sono state una meticolosa sequenza di toponimi, che per fortuna qui ancora resistono, dando un nome e un senso a ogni singolo angolo di campagna e di bosco. Trovare il grande faggio è stato quindi relativamente semplice, anche se nulla, a Ciànlàz, indica la sua presenza: non una freccia, non un cartello.

 

Trovare e osservare quella vecchia pietra di vedetta lassù, inglobata dal tronco, è stata un’esperienza difficile da spiegare. Una cosa però posso dirla: mi ha emozionato più di tanti monumenti altisonanti. Quell’albero conserva un pezzo di memoria, ma al tempo stesso se lo mangia e lo nasconde, anno dopo anno. Quel grande faggio si fa quindi metafora di tutti noi: di me, di Emiliano, dell’uomo e della bambina immaginari, del Comandante Bacchetta e del Comandante Tom, che quassù organizzavano la Brigata Savona, o del signor Cesarino, che ci ha spiegato come trovare la pianta.

 

Tenersi stretta la memoria e al tempo stesso perderla nei meandri del tempo sono in fondo due facce della stessa medaglia, che tutti viviamo ogni giorno. Ma quella grande pietra c’è, è una presenza indelebile fuori e dentro di noi: la Resistenza ha modificato le nostre vite così come quel sasso ha fatto ondeggiare e contorcere le venature nel legno dell’albero. In quelle fibre piegate, ma non spezzate, si può leggere il sentiero intricato verso la conquista della libertà.

 

Penso che quel faggio trovato per caso sia un vero e proprio monumento vivente. Che quella pianta e quella pietra vadano mostrate e raccontate a ragazzi e ragazze. Penso che questo luogo, come tanti altri tra le montagne d'Italia, debba ridiventare una meta di pellegrinaggio, una di quelle che suggeriva Piero Calamandrei.

 

Così è appena stato per me, alla vigilia di un nuovo 25 aprile.

 

 

Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione”

 

 

l'autore
Luigi Torreggiani

Luigi Torreggiani è giornalista e dottore forestale. Collabora con la rivista “Sherwood - Foreste ed Alberi Oggi” e cura per Compagnia delle Foreste la comunicazione di progetti dedicati alla Gestione Forestale Sostenibile e alla conservazione della biodiversità forestale. Realizza e conduce podcast, video e documentari sui temi forestali. Ha pubblicato per CdF “Il mio bosco è di tutti”, un romanzo per ragazzi, e altre storie forestali illustrate per bambini. Per People ha pubblicato “Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano”, scritto a quattro mani con Pietro Lacasella. 

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