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Storia

Primo Levi, alpinismo e libertà: salire in montagna per essere padroni del proprio destino

In occasione del Giorno della Memoria, ricordiamo Primo Levi. Come scrisse, tra le vette si aveva la possibilità essere “padroni del proprio destino” anche durante il ventennio fascista

di
Pietro Lacasella
27 gennaio | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

L’atto di salire in montagna non si può ridurre a un semplice esercizio fisico, e neppure al desiderio di raggiungere una meta tangibile (una vetta, un bosco, un rifugio, …). Spesso infatti si sale alla ricerca di sensazioni immateriali; spinti dalla necessità di respirare determinate emozioni, di lasciarsi trasportare da stati d’animo inconsueti e, a volte, addirittura inediti.

 

Non è quindi un caso che per molti la montagna rappresenti un baluardo di libertà; concetto ampio e complesso che, tuttavia, emerge abitualmente dalla narrazione delle esperienze alpine.

 

Quando mi capita di incontrare questa associazione (montagne-libertà) penso a Primo Levi. Il suo amore per la montagna e per l’alpinismo emerge timidamente dalla sua biografia: altri e più drammatici episodi l’hanno infatti segnata in maniera indelebile. Ma era una passione sincera e in un certo senso salvifica. Negli anni dell’università Levi saliva in montagna principalmente con due amici, nonché compagni di studi: Sandro Delmastro e Alberto Salmoni.

 

La loro attività alpinistica si intensificò in modo particolare dopo il 14 luglio 1938, anno in cui fu pubblicato lo spregevole “manifesto della razza”. Levi, com’è a tutti noto, aveva origini ebraiche. Anche Salmoni era ebreo, mentre Delmastro aveva ereditato dalla famiglia una cultura antifascista.

 

I tre salivano in montagna per allontanarsi da una società in cui non riuscivano a rispecchiarsi. Andavano ad arrampicare d’estate o con gli sci e le pelli d’inverno per prendere le distanze da un’atmosfera pregna di intolleranza; da un mondo in cui non si sentivano accettati. Lassù, tra le vette, tornavano a respirare e, come scrisse più avanti Levi, avevano ancora il privilegio di essere “padroni del proprio destino”.

 

Tuttavia non raggiungevano i rilievi solo per fuggire temporaneamente dalla realtà di tutti i giorni, ma anche per guardarla dall’alto, con occhio meno coinvolto e di conseguenza più lucido e nitido. Ecco, questa è forse la maggiore libertà che ci possono offrire le montagne: acquisire una prospettiva aerea capace di guidarci tra gli impervi sentieri della vita con maggior consapevolezza.

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