"Il vero alpinista non può essere fascista": il 25 aprile attraverso il ricordo degli alpinisti (e non solo) che lottarono per la liberazione dal nazifascismo
Da Riccardo Cassin a Giovanna Zangrandi; da Ettore Castiglioni a Gino Soldà: furono in tanti gli alpinisti che rifiutarono la Repubblica sociale e salirono in montagna per dare corpo a una società plurale, rispettosa degli altrui diritti e svincolata dal pensiero unico
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Il 25 aprile potrebbe essere un giorno come gli altri ma non lo è, perché ha al contempo segnato un inizio e una fine.
In realtà quell'inizio esisteva, clandestinamente, prima della caduta del nazifascismo e si manifestava in una pluralità di persone e di idee. Non sempre infatti chi decise di prendere coraggiosamente le distanze dal fascismo era guidato da una motivazione comune. Ed è proprio questa consapevole diversità a conferire un significato profondo alla Resistenza: per la prima volta, dopo vent'anni di dittatura, ci si poteva smarcare dal pensiero unico.
Allo stesso tempo, ahinoi, ciò che con il 25 aprile 1945 doveva terminare, è ancora vivo e tutt'oggi trova un corpo maleodorante nelle frequenti manifestazioni di intolleranza, nella sopravvivenza del pregiudizio suscitato dalla diversità, nella dilagante assenza di empatia, nel bieco populismo, nella demagogia, nel desiderio di imporre un pensiero e di affermare coattivamente un'ideologia. Nella censura.
Ciò che con il 25 aprile doveva esaurirsi si è in realtà dimostrato una pianta infestante, difficile da estirpare. Per questo oggi abbiamo il dovere di ricordare quei ragazzi e quelle ragazze che salirono in montagna o agirono nell'ombra delle città, nella speranza di costruire un futuro più onesto e tollerante.
Tra questi, ci furono diversi alpinisti: da Gino Soldá ai fratelli Chabod, passando per Dante Livio Bianco e Vittorio Ratti, fino a Massimo Mila, Riccardo Cassin, Ettore Castiglioni, Attilio Tissi e il sopracitato Detassis. Ma non mancano le figure femminili, una su tutte Giovanna Zangrandi. E poi alpinisti, magari meno talentuosi, ma sempre guidati da una grande passione come Primo Levi e i suoi cari amici Sandro Delmastro e Alberto Salmoni. E poi Tina Merlin, che alpinista non era, ma la cui storia è fortemente legata ai territori montani. E poi ancora Ada Gobbetti, perché i rilievi sono una geografia costante del suo Diario Partigiano; così come lo sono nella Guerra dei poveri di Nuto Revelli, ne I piccoli maestri di Luigi Meneghello, e di tutti gli altri che, senza volontà, abbiamo ingiustamente dimenticato.
D’altronde l’alpinismo ha sempre assorbito i caratteri della società, confermandoli oppure rinnegandoli con decisione. La scelta di molti fu spiegata in modo esemplare proprio da Ettore Castiglioni: “Il vero alpinista non può essere fascista, perché le due manifestazioni sono antitetiche nella loro più profonda essenza. L'alpinismo è libertà, è orgoglio ed esaltazione del proprio essere, del proprio io come individuo sovrano (...): il fascismo è ubbidienza, è disciplina, è annullamento della propria individualità nella pluralità e nella promiscuità amorfa della massa, è abdicazione della propria volontà e sottomissione alla volontà altrui”.
E dire che il fascismo tentò - e a volte riuscì con successo - di fare suoi anche i rilievi e il movimento alpinistico per rinforzare ulteriormente la macchina della propaganda. Chi meglio dei grandi scalatori poteva riflettere le virtù esaltate dal regime come lo spirito di sacrificio, un fisico aitante e un temperamento audace? Gli alpinisti andavano premiati; gli alpinisti dovevano diventare emblema del fascista perfetto, di quello che, fregandosene del pericolo, trasformava la retorica in realtà. Arrivarono così le medaglie, distribuite dal Duce in persona anche a chi, più avanti, decise di salire in montagna per unirsi alla Resistenza.
Con le seguenti parole, riportate sulla rivista Lo Scarpone, il grande alpinista lecchese Riccardo Cassin ricordò un singolare episodio della sua resistenza, vissuta a capo del Gruppo Rocciatori della Brigata Lecco:
“Ricordo che una volta, di notte, mentre scendevamo dai Resinelli carichi di bombe a mano e munizioni, incontrammo una pattuglia di SS. Le granate le portavamo pronte da esplodere dentro le calze, senza sicura. Ci fermarono e ci chiesero dove andavamo, con i mitra spianati. Gli feci vedere la Medaglia d’oro al valore atletico conferitami da Mussolini; si misero sull’attenti e mi lasciarono andare. Se non avessi avuto in tasca quel particolare ‘salvacondotto’ e mi avessero perquisito, saremmo saltati in aria tutti quanti”.
Furono in tanti – ripeto – gli alpinisti che, come Cassin, rifiutarono la Repubblica sociale, anche perché, a differenza di quanto ingenuamente pensavano i teorici del littorio, l’alpinismo non si può ridurre al puro e semplice sprezzo del pericolo.
Lo spirito che si diffuse emerge con chiarezza nel libro La casa sulla Marteniga, della sopracitata Tina Merlin: “Speravamo fosse meglio dopo la lotta, non più furbi e ruffiani, uno Stato nuovo da costruire, noi che lo avevamo voluto. Non è stato proprio così, ma qualcosa di nuovo c’è, l’abbiamo conquistato e vogliamo mantenerlo. Per questo ci diamo tanto da fare, perché resti aperto quell’importante varco della nostra storia che è costato sacrifici e sangue e che troppi vorrebbero chiudere e morta là. Poi anche i nostri figli faranno la loro parte si spera”.
La nostra generazione non è quella dei figli, ma quella dei nipoti e dei pronipoti. Ciononostante dobbiamo anche noi “fare la nostra parte”, perché spesso i boschi più sani sono prevalentemente diversificati: allo stesso modo una società capace di parlare al plurale, e quindi rispettosa degli altrui diritti, è una società più prospera e forte. Anche questo ci ha insegnato la Resistenza.
Buon 25 aprile!