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Cultura

Nonostante gli avvertimenti, si spingeva a cavallo sul "cono" del Vesuvio per dipingerne i fumi. Tra le atmosfere di Giuseppe De Nittis

"Sei ore di viaggio a cavallo per andare e tornare", sin tanto che, il 26 aprile, su una parete del vulcano si aprì una fenditura, generando una serie di esplosioni: ai vapori, alla cenere, alle polveri si aggiungeva la lava, che incanalandosi verso il basso, trasformò la curiosità di molti in paura. Il 25 febbraio 1846 nasce l'artista Giuseppe De Nittis: "Io non conosco maestro contemporaneo che sia mai riuscito a rendere meglio il carattere e il movimento di una città e di un popolo"

di
Silvio Lacasella
25 febbraio | 12:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Chissà cosa avrebbero detto oggi i funzionari della protezione civile vedendo ogni giorno Giuseppe De Nittis avviarsi lungo le pendici del Vesuvio, così da avvicinarsi con la tavolozza ai fumi che il vulcano da qualche mese spingeva nell’aria. Sordo perfino agli avvertimenti di Luigi Palmieri, direttore dell’osservatorio vulcanologico, il quale invitava alla massima prudenza i molti curiosi che non volevano perdere lo spettacolo. Una dinamica che conosciamo bene. D’altronde, la rabbiosa eruzione del 79 d.C., quella che sommerse, con Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis, l’attuale Torre Annunziata, già allora era talmente lontana da trasformare le testimonianze di quella tragedia in straordinaria attrazione turistica (oltre quattro milioni i visitatori a Pompei nel 2024).

 

“Da un anno oramai salivo ogni giorno sul Vesuvio per lavorare”, così ricorda quei giorni il pittore, tra le pagine del suo taccuino, pubblicato postumo dalla moglie Leontine nel 1895. Presenza importante Leontine Gruvelle - il cui volto pare assomigliasse in modo sbalorditivo alla madre dell’artista - incontrata nel 1868 a pochi mesi dal suo arrivo a Parigi: fu lei a introdurlo in un ambiente culturale tanto aperto, quanto selettivo.

 

Dopo averlo raffigurato molte volte in gioventù, era un Vesuvio diverso quello che ora vedeva, lasciata momentaneamente la Francia tra il 1870 e il ’71, a causa del conflitto franco prussiano. De Nittis prende casa non lontano dalla sua amata montagna, ed è da lì che al mattino parte, munito di cavalletto e accompagnato dalle guide: “Sei ore di viaggio a cavallo per andare, tornare e salire sino al cono”. Quelle che dipinge, sono in prevalenza tavolette di piccolo formato. Quando la prospettiva è presa dal basso, la sagoma del monte si staglia verso il cielo, mostrando in alcuni casi la punta del cratere imbiancata. Proprio come farebbe un reporter, data con precisione alcune di queste opere: marzo 1872. Sin tanto che, il 26 aprile, su una parete del vulcano si aprì una fenditura, generando una serie di esplosioni: ai vapori, alla cenere, alle polveri si aggiungeva la lava, che incanalandosi verso il basso, trasformò la curiosità di molti in paura.

Colpisce come, il “plus Parisien que touts les Parisiens”, eseguendo questi dipinti non tema d’inciampare. L’ipnotica abilità esecutiva sembra rimasta in Francia: la superficie ora si fa terrosa, opaca, la pennellata pastosa, meno definita, così da restituire, con l’imponenza dell’evento, la sua sostanza emotiva

 

Va detto che neppure a Parigi De Nittis crea con la sua arte falsi stati d’animo. Il salto è grande: nato a Barletta il 25 febbraio 1846, quando vi giunge è poco più che ventenne. Subito cerca di inserire all’interno dei suoi quadri, già avviati in direzione della modernità, alcune note particolarmente concilianti, quasi fossero rassicuranti maniglie, collocate con accortezza nel percorso in modo da rendere più graduale il passaggio. I primi a criticarlo sono proprio i pittori coi quali aveva condiviso molte idee negli anni d’esordio. Anche parte degli impressionisti lo guarderanno con sospetto. Essi giudicano quelle raffinatezze compositive, legate al dettaglio e alle “buone maniere”, concessioni alla moda e al mercato: “Mi viene detto spesso che gli impressionisti non hanno grande simpatia per me (…) Ho avuto continui rapporti soltanto con Degas e Manet”. Formidabili artisti, Degas e Manet; anch’essi difficili da collocare all’interno di quel movimento. Su quel giudizio aspro, tranchant, di sicuro deve aver pesato il fatto che De Nittis, in anni dominati dalla retorica pompier, fu uno dei pochi a riscuotere grande successo (basti dire che nel 1878, dopo aver partecipato all’Esposizione Universale, il Governo francese decise di conferirgli la Legion d’Onore).

 

Egli, in precedenza, grazie ad un prolungato soggiorno fiorentino, aveva avuto modo di assimilare con voracità di sguardo, le esperienze dei Macchiaioli. Ancor prima, però, come sempre guidato dall’istinto, aveva percorso le strade assolate e polverose della Puglia. Aveva portato i colori lungo la costa, in cima al calesse fornendo un’inquadratura pre-cinematografica e molto innovativa per i suoi tempi. Tra i campi, ritrasse alti pioppi, disponendoli all’interno della composizione con eleganza orientale.  Quando cerca un contatto ravvicinato con la luce, pare anticipare le intuizioni degli impressionisti.

A volte, felice, restavo sotto gli improvvisi acquazzoni. Perché, credetemi, io l’atmosfera la conosco bene; e l’ho dipinta tante volte. Conosco tutti i colori, tutti i segreti dell’aria e del cielo. Oh, il cielo! Ne ho dipinti di quadri! Cieli, cieli soltanto, e belle nubi. La natura, io le sono così vicino! L’amo! Quante gioie mi ha dato. Mi ha insegnato tutto: amore e generosità (…). Con il cielo io mi raffiguro i paesi ove sono vissuto: Napoli, Parigi, Londra. Li ho amati tutti”.

 

E poi ancora: “Se ho messo nella mia pittura un po’ di quell’ardente passione per la natura che mi faceva smarrito al suo cospetto, tout est bien”. Una luce diversa, sfaldante, catturata dalla retina e trasferita sulla tela in presa diretta.

 

Sette anni dopo il suo arrivo a Parigi parteciperà alla prima uscita ufficiale degli Impressionisti (che ancora non si chiamavano così), allestita nel 1874 nello studio del fotografo Nadar, e non può essere una coincidenza. Quello che molti poi faranno fatica a capire fu che la grandezza di De Nittis include le sue apparenti contraddizioni.

Quando sbaglia, successivamente se ne pente, e lo scrive: “A quell’epoca io ero vincolato da un contratto con Mr. Goupil ma i nostri rapporti non erano buoni (…) Voleva quadri a soggetto, scene di costume. Io mi ci provavo, ed era proprio questo il punto della questione”, Goupil era uno dei più celebri galleristi parigini. Oppure, quando capisce che per essere ammesso nei Salon avrebbe dovuto ricamare la trama del racconto, esibendo al massimo grado il proprio talento, sin quasi a lambire le soglie del virtuosismo. D’altronde, persino Degas mise assieme qualche scena con soggetto storico, pur di ottenere il medesimo risultato.

Non va dimenticato che parte da Barletta, Giuseppe (Peppino) De Nittis, dal bacino della valle dell’Ofanto, dov’era nato nel 1846. E’ una terra asciutta. La pioggia la si vede un paio di mesi all’anno. L’aria, calda e secca soffia alzando un pulviscolo che De Nittis porterà con sé, prima a Parigi e poi tra le nebbie londinesi. Bene lo si nota quando utilizza il pastello, trasformando quel pulviscolo in delicato polline.

 

Incanta il suo entusiasmo: “Le rive della Senna mi incantarono (…) amo la Francia appassionatamente, più di un qualsiasi francese, e se tutto ciò non appartiene alla mia terra natia, appartiene al paese che uno sposa per amore”. Altrettanto capiterà a Londra, dove non meno era benvoluto e considerato. Julien Claretie, pensando ai suoi quadri affermerà: “E’ proprio il cielo, il terreno, l’aria di Londra. Io non conosco maestro contemporaneo che sia mai riuscito a rendere meglio il carattere e il movimento di una città e di un popolo”.

Di De Nittis, iniziarono ben presto a circolare molti falsi. Si racconta che, nel 1883, durante un suo soggiorno napoletano, (tre anni prima della morte, a soli 38 anni), venne portata all’artista una tela per riceverne l’autentica. Essa raffigurava “Place  des Pyramid”, soggetto che egli aveva effettivamente dipinto nel 1875. Dopo averlo identificato subito come opera non autentica, egli scriverà: “Di questo quadro (oggi al Museo d’Orsay) non esiste che un solo studio: e stava in casa mia, perché mia moglie aveva desiderato tenerlo per sé. Feci dunque un’inchiesta… scoprendo che un solo artista ne possedeva ventidue esemplari”.

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