"Hanno chiamato i carabinieri quando siamo arrivati con la troupe". Diffidenza e spopolamento nei territori montani: "Il vento fa il suo giro" compie vent'anni
Ricorre il ventesimo anniversario di quella che forse è stata una delle prime indagini cinematografiche sul tema dello spopolamento in montagna. In occasione di questo importante anniversario, abbiamo deciso di confrontarci con Thierry Toscan, l’attore che ha interpretato Philippe (il protagonista del film)
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di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Ricorre il ventesimo anniversario di quella che forse è stata una delle prime indagini cinematografiche sul tema dello spopolamento in montagna: Il vento fa il suo giro.
Il film, uscito nel 2005, è ambientato in un piccolo paese occitano, arroccato sulle Alpi cuneesi, e la trama disegnata dal regista Giorgio Diritti mette in evidenza con grande efficacia due tra le principali dinamiche provocate dallo spopolamento: l’abbandono del territorio e la diffidenza nei confronti di chi viene da fuori, dei "foresti", di chi decide di invertire la rotta provando a riabitare le terre alte.
Così Philippe, il protagonista del film, viene malamente costretto ad allontanarsi dal paese occitano in cui si era trasferito per allevare capre e per produrre formaggio. I paesani, malfidenti, preferiscono sopravvivere con i turisti che, pochi giorni l’anno, raggiungono la località e la vivono in maniera disinteressata, piuttosto di accogliere chi si mette in gioco per salvaguardare o rinnovare (senza snaturare) le tradizioni alpigiane.
I messaggi veicolati dal film sono oggi più che mai attuali: “Il vento fa il suo giro e prima o poi le cose ritornano”. Così, in occasione di questo importante anniversario, abbiamo deciso di confrontarci con Thierry Toscan, l’attore che ha interpretato Philippe. Toscan è nato in Francia, dove ha vissuto fino a ventidue anni. Poi, in Italia, è nata e si è sviluppata la sua carriera nel mondo del cinema.
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Com’è nata la tua collaborazione con Giorgio Diritti? Come sei stato coinvolto nella realizzazione del film?
Avevo conosciuto Giorgio perché sono stato uno dei primi fondatori di Ipotesi Cinema (scuola di cinema nata nel 1982 per opera di Ermanno Olmi n.d.r.). Giorgio era arrivato successivamente e avevamo collaborato in progetti di vari temi.
Se non ricordo male, inizialmente per il personaggio di Philippe doveva essere stato interpellato Gérard Depardieu, ma la cosa fallì perché i soldi che chiedeva erano troppi.
Dunque, fammi capire bene, il ruolo da protagonista doveva recitarlo Depardieu?
Sì (ride). Questo ancora agli inizi, inizi, inizi del progetto. Poi, considerando i fondi a disposizione per il film, realizzato in ultra economia, la cosa si è rivelata immediatamente infattibile.
Quindi hanno chiesto a te…
Sì, siccome gli assomigliavo… (ride ancora). Ho risposto: “Datemi la metà di quello che vi ha chiesto lui, a me basta e avanza!”
Ci riassumi brevemente la tua carriera nel mondo del cinema?
La mia carriera nel cinema è iniziata nei primi anni Ottanta. Sono arrivato in Italia come fotografo di moda, poi ho conosciuto l’ambiente del cinema e mi sono spostato dalla fotografia alle riprese, diventando operatore macchina: mi ha permesso di sviluppare una certa sensibilità per questo lavoro.
Come e quando sei diventato attore?
Mi capitava che in ogni film a cui lavoravo come tecnico finivo per passare davanti alla macchina, perché – approfittando della mia presenza sul set – mi spingevano a recitare delle piccole parti. Così piano piano ho iniziato a fare l’attore. Lo stesso Giorgio Diritti mi ha motivato a farlo e così ci siamo imbarcati in questa follia, perché di film ne ho fatti tanti, anche in questi ultimi anni (sempre come attore, perché Toscan da vent’anni non lavora più come tecnico n.d.r.), ma di lavori come Il vento fa il suo giro non me ne sono più capitati.
A tal proposito, so che non è stato semplice girare il film. Vi siete dovuti in un certo senso “arrangiare” con poco. Vuoi raccontarci in che contesto si sono svolte le riprese e come siete riusciti a portare a termine il lavoro?
Il film ci è costato un anno di lavoro, perché avevamo bisogno di tutte le stagioni. Quindi ci sono state diverse interruzioni, anche di varie settimane, e ogni volta si cambiava troupe.
Come mai?
Perché gli operatori avrebbero percepito il più della retribuzione, il compenso totale, solo in seguito all’uscita e alla distribuzione del film. Quindi, quando gli operatori ricevevano altre proposte, magari pagate bene, giustamente scappavano via e nessuno poteva opporsi, perché avevano anche ragione. Di conseguenza avevamo delle troupe che lavoravano tre o quattro settimane e poi se ne andavano. È stato incredibile questo modo di lavorare e immagino che, guardando il film, questa cosa un po’ si percepisca: secondo me traspare la sofferenza nella realizzazione. Senza gli aiuti delle Film Commissions, dei comuni, della città di Torino, non saremmo riusciti a ultimare il lavoro.
Sono trascorsi vent’anni dall’uscita del film. Rivolgendo lo sguardo indietro qual è il ricordo più nitido di quell’esperienza?
Senza dubbio l’IVA non pagata. Mi ero scordato, perché ero lassù a girare il film. Quella dimenticanza mi è costata 9000 euro di multa. Tornando a casa mi sono trovato un bel regalino...
Sul piano professionale, invece? Immagino che le continue variazioni provocate dei cambi delle troupe abbiano avuto un impatto sul vostro lavoro di attori...
È stato un lavoro un po’ complicato, perché quando fai un film in cui devi essere presente in quasi tutte le scene, per un attore è importantissimo il rapporto con la troupe. Possono infatti nascere nervosismi, perché magari l’attore ci mette tanto tempo, oppure delle situazioni un po’ imbarazzanti. Anche per l’attore stesso, perché se sa che per colpa sua si va a letto tardi, ovviamente cresce in lui disagio, tensione e pressione. Se si ha la stessa troupe dall’inizio alla fine, come succede praticamente in ogni film, spesso nasce un rapporto quasi affettivo, perché poi macchinisti, elettricisti, ti seguono, ti “coccolano”. Nasce un’intesa che si porta avanti fino alla fine ed è più raro che prendano forma situazioni di nervosismo.
Quando invece continui a cambiare troupe è sicuramente più complicato, è tutta un’incognita, si litiga di frequente, possono saltare i rapporti di fiducia. Chi deve recitare si trova in mezzo a queste situazioni difficilissime. Il vento fa il suo giro, oltre alle varie difficoltà, ha avuto anche questi problemi.
Sono rimasti vivi i rapporti con gli abitanti della località dov’è stato girato il film (Ussolo, Valle Maira)?
Per un certo periodo, andando a presentare il film in giro, spesso mi ritrovavo con degli affezionati del paese o della zona, che magari avevano anche recitato del film. Si era formato un legame che poi ovviamente, con il passare del tempo, si è sciolto.
Prima di girare il film eri interessato ai contesti montani e alle loro dinamiche sociali?
Se devo essere onesto no.
E oggi?
Oggi moltissimo. Io sono sempre stato un amante del mare e invece mi facevano fare tutti film di montagna. Mi chiedevo come mai, almeno una volta, non potessero darmi una parte in un bel film di mare. Poi invece si è ribaltata la situazione e, proprio girando parecchi lavori in montagna dopo Il vento fa il suo giro - che mi ha un po’ etichettato come “attore di montagna” -, ho iniziato a interessarmi alle terre alte. Mi sono ricreduto, ecco, e oggi sono molto attirato dalla montagna.
Il vento fa il suo giro tocca una conseguenza della piaga migratoria, ovvero la diffidenza che può pervadere gli animi dei rari abitanti dei paesi esterni rispetto ai grandi flussi turistici quando un forestiero decide di trasferirsi in montagna. Secondo la tua esperienza, a vent’anni dall’uscita del film, quanto è ancora radicata questa dinamica nel territorio?
Io ho avuto molti problemi, arrivando dalla Francia, nel paese veneto, sui colli Asolani, dove mi sono trasferito e dov'era nato mio padre. Mio padre a vent’anni è emigrato in Francia per andare a lavorare nelle miniere: lì ha conosciuto mia madre e sempre lì sono nato io e ci ho vissuto fino a ventidue anni. Nonostante mio padre nel suo paese d'origine fosse benvisto e nonostante lì avessi ancora tutti i miei zii, ho avuto diversi problemi relazionali: perché venivo dalla Francia, perché avevo i capelli lunghi, e così via. Non sono mai stato preso sul serio, nonostante abbia fatto tante cose per il territorio. Sono sempre stato lasciato molto da parte.
Quando nel 2012 mi sono trasferito vicino a Roma, ho vissuto dinamiche simili. Nemmeno ora mi trovo a mio agio, nonostante abbia negli anni organizzato diverse iniziative per il paese dove abito. Sebbene mi sia impegnato molto continuo a sentirmi in disparte.
Quindi, secondo te, più che essere un fenomeno sociale legato ai territori montani (che è quello appunto evidenziato da Il vento fa il suo giro) è una tendenza comportamentale di carattere più ampio, che non vede confini geografici?
Credo proprio sia così. In occasione di una presentazione, un giornalista americano mi ha detto: “Questo film rappresenta esattamente quello che noi in America viviamo”. E lui non parlava di montagna. Una cosa analoga mi è capitata in Russia. È quindi una dinamica sociale, che ritorna e che non è strettamente legata ai rilievi. Forse in montagna può presentarsi in forma più evidente, perché in alcune località è più facile trovare persone meno abituate all’incontro con chi arriva da fuori.
Ti racconto un aneddoto: nel paese di Ussolo, quando siamo arrivati con la troupe, hanno chiamato i carabinieri, perché non sapevano cosa stesse succedendo. Poi ovviamente siamo diventati amici, ma ci è voluto del tempo. Se pensi fa quasi un po’ ridere: abbiamo fatto un film su Philippe, che è stato respinto e, inizialmente, noi stessi siamo stati respinti.
Negli ultimi vent’anni, da questo punto di vista, le cose non sono cambiate. Anzi, se proprio dobbiamo dirla tutta, mi sembra stiano peggiorando. Nel mentre sono anche nati i social e sappiamo benissimo quanto siano strumenti di grande efficacia per veicolare paure e per alimentare diffidenze.
Il vento fa il suo giro e prima o poi le cose ritornano.
Oggi è un vento che sembra annunciare tempesta?
Sì, certo.
Un’ultima domanda: sei più tornato in Valle Maira, a Ussolo?
No, anche perché il film non è stato presentato e distribuito molto da quelle parti.