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Cultura

"Smettiamo di credere che le cose possano migliorare, ma enfatizziamo aria buona, cibo genuino, paesaggio". Donatella Di Pietrantonio, scrittrice sensibile a dinamiche antropologiche

Donatella Di Pietrantonio è nata a Penne in provincia di Pescara. Un dato importante perché la provenienza ha informato in modo profondo la produzione letteraria. Scrittrice dalla voce specifica e forte, ha vinto numerosi premi con il romanzo “L’Arminuta” uscito per Einaudi. Esce, ancora per Einaudi, “L’età fragile”, candidato al Premio Strega di quest’anno. E’ senz’altro una delle scrittrici italiane più sensibili ai temi delle relazioni familiari. Efficace nel calarle nel contesto ambientale e culturale, ha anche una capacità di osservazione antropologica non comune e mai scontata. La montagna, intesa come luogo ambivalente, è parte della sua riflessione

di
Camilla Valletti
17 maggio | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Donatella Di Pietrantonio è nata a Penne in provincia di Pescara. Un dato importante perché la provenienza ha informato in modo profondo la produzione letteraria. Scrittrice dalla voce specifica e forte, ha vinto numerosi premi con il romanzo “L’Arminuta” uscito per Einaudi. Esce, ancora per Einaudi, “L’età fragile”, candidato al Premio Strega di quest’anno. E’ senz’altro una delle scrittrici italiane più sensibili ai temi delle relazioni familiari. Efficace nel calarle nel contesto ambientale e culturale, ha anche una capacità di osservazione antropologica non comune e mai scontata. La montagna, intesa come luogo ambivalente, è parte della sua riflessione.

 

Lei vive in Abruzzo, una terra che è sempre al centro del suo lavoro. L’Abruzzo possiede un posto importante nell’immaginario letterario, da D’Annunzio fino a Ignazio Silone. Quale è il suo Abruzzo, la sua montagna interiore?

 

L’Abruzzo è terra di contrasti, forse è proprio da questi che trae il suo fascino, anche letterario. Dalla montagna si vede il mare, e viceversa. Abito nella fascia collinare, in mezz’ora salgo in quota o scendo in spiaggia. Sono cresciuta con questa quinta di montagne che incombeva su di me, sulla mia vita. Un limite che fermava lo sguardo, ma mi dava anche un senso di protezione, difesa. Dal vento, per esempio. Da bambina avevo paura del vento, che mi portasse via, ma la montagna lo avrebbe fermato, e qualcuno mi avrebbe trovata. Sento molto la montagna come madre, silenziosa, dura della sua pietra. Puntuta, ma poi capace di offrire all’improvviso i suoi piccoli frutti in primavera. Non molto diversa, in fondo, dalla madre reale che ho avuto.  

 

Nel suo ultimo romanzo, un “fatto” di cronaca nera rompe per sempre quello che la comunità riteneva un equilibrio perfetto. Un fatto di sangue e di violenza di genere che si ripercuote sulle nuove generazioni svelando, insieme, il meccanismo patriarcale di quelle passate. Perché, secondo lei, le comunità più ristrette tendono ad omettere? Cosa significa per lei il rimosso sociale? Quanto c’è di non detto nella versione ufficiale del proprio luogo di nascita?

 

Le piccole comunità si arroccano intorno alle loro poche certezze e non sono disposte a metterle in discussione. Di tutto ciò che manca nelle terre alte siamo consapevoli, parlarne non è più necessario. Ci si rassegna all’isolamento, in una sorta di fatalismo smettiamo anche di credere che le cose possano migliorare. Ma enfatizziamo silenziosamente l’aria buona, il cibo genuino, il paesaggio. E la sicurezza del posto. È questa la versione ufficiale del luogo di nascita e di restanza, una versione parziale, sottilmente edulcorata. Tutto ciò che la disconferma, come può essere un fatto di sangue che sporca il bosco, suscita al momento grande clamore, ma poi entra presto in un rimosso collettivo, teso a proteggere l’identità rassicurante del luogo ai suoi stessi abitanti. Il non detto è una difesa comune, serve a risparmiarti la domanda che tu stesso puoi farti: perché resto qui?

 

La madre di Lucia, vissuta come contadina all’interno di una famiglia patriarcale è costretta dal marito ad essere uomo in campagna e femmina in casa. Quanto è difficile liberarsi da questi retaggi per una donna che sceglie comunque di restare a vivere nel suo luogo natale?

 

Di certo restare sul posto complicava un eventuale percorso di emancipazione, di affrancamento. Perché il patriarcato rurale era lì, duro, roccioso, vivo e presente. Non a caso nel romanzo la madre di Lucia ha il suo momento di libertà solo quando vanno insieme a trovare una cugina a Napoli. In quei giorni in città lei è diversa, lascia che le altre – figlia e cugina – si prendano cura del suo corpo, del suo aspetto. Peraltro lei non ha scelto di restare sul luogo di origine, è stata obbligata da una totale mancanza di mezzi economici e non, ma anche da una sua incapacità a immaginare una vita altrove. Ha accettato quello che ha sempre sentito come un destino imposto alla nascita insieme al nome. Durante il viaggio di ritorno in Abruzzo si raschia via con le unghie lo smalto che sua cugina le ha messo. Il rientro a casa coincide con una volontaria riappropriazione di un sistema di valori che la vede vittima e complice insieme. Io stessa non mi sono del tutto liberata, nonostante abbia combattuto da giovane contro mio padre e il suo mondo. Ma poi sono rimasta qui, ubbidiente, in fondo, a quel mandato familiare che voleva la figlia femmina vicina, pronta a diventare il bastone della vecchiaia quando i genitori ne avessero avuto bisogno.

 

Amanda, la giovane figlia di Lucia del romanzo, torna a casa a causa del Covid. La sua però non è una “restanza” come lei definisce certi ritorni ma una forma di apatia. Cosa può trasmettere un luogo aspro come quello che lei descrive ad una ragazza interrotta come lei la descrive?

 

Quando ci si sente in difficoltà estrema, a volte capita di tornare dove si è cresciuti, nell’abbraccio rassicurante del luogo che ci soffocava. Amanda torna al niente che aveva voluto lasciare per inseguire i suoi sogni ambientati a Milano. In quel momento prevale evidentemente un bisogno di protezione familiare e sociale, benché lei rifiuti in apparenza ogni forma di scambio con gli altri, madre compresa. E, sempre in silenzio, questo luogo aspro muove nel tempo qualcosa dentro di lei, un senso di appartenenza che si fa strada proprio quando il luogo stesso è sotto attacco. Anche a me capita di apprezzare ciò che mi appartiene da sempre solo nel momento in cui rischio di perderlo.

 

Lei usa il dialetto con molta parsimonia, quasi a creare una sonorità all’interno della narrazione. Un dialetto che offre anche la misura di una certa inibizione affettiva tipica di certi centri isolati di montagna. Può fare qualche esempio?

 

Non ho bisogno di esibire il dialetto, di cercare l’effetto speciale che ammicca ai lettori. Mi basta restituirne la temperatura, variando la costruzione della frase o usando in italiano parole che in dialetto assumono un significato diverso. Per esempio “tenere” è un verbo di possesso: “Io tengo una casa”. Il dialetto spesso riflette un estremo pudore nell’espressione dei sentimenti, più un’inibizione che un pudore, certo. Nella mia lingua madre non esiste “amore”, “amare”. O meglio, esistono ma non si usano quasi mai. Si usa il silenzio, gli sguardi. Innamorata non è la donna, ma la pecora in calore, che è quindi agitata, un po’ pazza. E solo secondariamente la parola può tornare all’umano, ma in un senso quasi dispregiativo, di fuori controllo: “Fa come la pecora innamorata”.

 

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