Non trafugano due opere d'arte grazie a un'astuzia tecnica dello scultore. Storia del “Michelangelo del legno” che, dopo una parentesi veneziana, tornò dalle sue montagne
Nato a Belluno il 20 luglio 1662, Andrea Brustolon è stato uno tra i massimi interpreti della scultura lignea di tutti i tempi. L'anniversario ci permettere di ripercorrere il suo tragitto artistico e di soffermarci sulle caratteristiche dei legni da lui utilizzati
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Due ravvicinate occasioni espositive, una nel 2004 e l’altra nel 2009, hanno aiutato ad approfondire e a dare il giusto valore a uno tra i massimi interpreti della scultura lignea di tutti i tempi, sia sacra che profana: Andrea Brustolon, nato a Belluno il 20 luglio 1662 (vi morirà nel 1732). Se collocare ogni artista nella propria epoca è una precondizione necessaria prima di esprime un giudizio, per gli scultori questo vale forse un po’ di più. Essi infatti, a differenza di quanto generalmente avviene in pittura, elaborano le loro immagini sapendo di poter contare sulla forza visiva di una materia che, oltre a produrre volumi e forme, trattiene in sé anche la fase che precede la creazione artistica. Se nell’osservare la Pietà di Michelangelo, scolpita tra il 1497 e il ’99, non tenessimo presente che quell’enorme blocco di marmo, con i mezzi di allora, dopo essere sceso dalle cave di Carrara, è lentamente giunto a Roma per essere affidato alla bravura di un ragazzo di circa ventidue anni, escluderemmo un elemento prezioso per cogliere nella sua compiutezza l’eccezionalità dell’opera. Non di meno avviene con la scultura in legno, infatti, dopo averne intuito gli umori della crescita, l’artista inizia a intagliare il blocco con virtuosa maestria seguendo le venature interne di una pianta talvolta centenaria, uscita da boschi impervi o, comunque, all’epoca di Brustolon penetrabili con modalità tecnologiche assai differenti da quelle odierne.
Due esposizioni, si diceva. La prima al Palazzo del Quirinale a Roma - nella Sala dello Zodiaco, solitamente non fruibile al pubblico - incentrata sulle dodici poltrone in bosso, giunte nella capitale dalla originaria collocazione di Villa Pisani a Stra (Venezia) nel 1919, realizzate da Brustolon a cavallo del secondo decennio del secolo XVIII e raffiguranti, con una serie di rimandi simbolici, sia i mesi dell’anno che i segni dello zodiaco.
La seconda, cinque anni dopo, ha fissato un punto importante nella storia dell’artista, poiché rimarrà come la prima grande mostra monografica dedicata a Brustolon, accompagnata da un eccellente catalogo edito da Skira, prezioso sia per la qualità delle immagini che per quella dei testi, a cura di Anna Maria Spiazzi e Giovanna Galasso. In quell’occasione, Mario Botta, con lodevole garbo, ha contribuito con il suo allestimento a valorizzare le 150 opere pervenute a Belluno, nelle sale del Palazzo della Crepadona.
Nella sua città, dunque. Brustolon, infatti, è legato come pochi altri in modo indissolubile alle proprie origini, a differenza di quanto fu per Tiziano che da Venezia intravvedeva nelle giornate limpide le cime dei suoi monti in lontananza. Brustolon fece una scelta diversa: sceso in laguna appena quindicenne, dopo aver lavorato e reso soddisfatta una clientela esigente e prestigiosa, dopo un paio di decenni rientrò nei suoi luoghi con la certezza di ritrovare nuovi entusiasmi.
Vi tornò maturato, con una serie di punti di riferimento visivi e culturali, quali le tracce ancora luminosissime lasciate dall'arte barocca. Ne rielaborerà nel legno i virtuosismi, le morbidezze, le ipnotizzanti sequenze giunte ai suoi occhi attraverso Bernini, con tutta probabilità studiato durante un viaggio a Roma. Viaggio che, a dire il vero, era iniziato già prima, quando a Venezia aveva incontrato il lavoro del genovese Filippo Parodi e del fiammingo Giusto Le Court, berniniani di consolidata fede.
Per dire quali vertici raggiunse la sua notorietà, è sufficiente ricordare che, dopo oltre cento anni, Balzac ricordò la sua bravura tra le pagine del romanzo “Il cugino Pons”, definendolo “Il Michelangelo del legno”. Lo scrittore francese pare possedesse una sua cornice.
L'importanza del luogo, s'è detto. Assieme a questo sono i profumi del legno a entrare nel respiro della sua arte. Il bosso dunque, resistente e compatto, ma anche il pioppo e persino l’ebano, utilizzati entrambi per il “Marc'Aurelio a cavallo”, prima opera presente alla mostra del 2009. Sceglierà ancora l'ebano, scuro e pesante, in altre occasioni, come per alcuni elementi del celebre fornimento Venier, che lo impegnò nell'arredo del palazzo veneziano per oltre dieci anni.
Inoltre il pero, più delicato ma scelto per la bellezza dei toni e per la capacità di restituire una sorta di “suono interiore”. Quindi i profumi resinosi dell’abete rosso e del cirmolo, preferito ad ogni altro da Brustolon, la cui pasta morbida e duttile gli servirà per creare i suoi maggiori capolavori.
Gli “Angeli reggilampada” della chiesa dei Frari a Venezia sono di cirmolo, così come quelli della chiesa di Santo Stefano a Belluno, enormi e dipinti di bianco a simulare il marmo, forse per rievocare quelli di Bernini in Santa Maria delle Fratte a Roma.
Queste sculture “bianche” sono accompagnate da una loro storia: non vennero trafugate dai soldati napoleonici proprio perché le credettero difficili da rimuovere, in quanto scolpite nella pietra. Una forma di “mimetismo” ripetuta in altre occasioni, quasi egli si sentisse in obbligo di dover competere con quella che allora era considerata una più nobile materia. Anna Maria Spiazzi scrive: “Andrea dimostra di essere, fin da subito, uno scultore straordinario, eccezionalmente dotato e capace di ottenere nell'intaglio ligneo quanto gli scultori della sua epoca realizzavano nel marmo” e aggiunge, proprio riferendosi ai due angeli di Santo Stefano: “con queste due grandi sculture, già in origine con una finitura pittorica atta a simulare il marmo, riconferma nelle opere a soggetto sacro la pariteticità tra la scultura lignea e la scultura in marmo, e lo rende esplicito con l'interscambiabilità dei materiali”.
Brustolon chiamato per volontà della committenza a duellare con il marmo non si sottrae e accetta la sfida. Da un lato la vince, dall’altro, in cuor suo, la perde. Egli non poteva non sapere che quel rivestimento era una sorta di camice bianco che andava a sottrarre bellezza alla peculiarità del legno, col quale, sin dagli esordi, aveva stretto una sorta di patto affettivo.
A Palazzo della Crepadona, ma anche in tutte le occasioni future, con Andrea Brustolon vi sarà sempre uno spettacolare “fuori mostra”. Un'appendice preziosa, nella quale sarà possibile ammirare passaggi cruciali della sua arte. Infatti, inamovibili dalla loro collocazione, sempre esposti rimangono i suoi altari. Alcuni nella stessa Belluno, come all'interno della chiesa di San Pietro (le due pale raffiguranti la morte di San Francesco Saverio e la “Crocefissione”). O a Dosoledo, dove nella Parrocchiale si trova l'altare dell'Addolorata. Quando poi si imbocca la Val Zoldana, col Civetta e il Pelmo a far da scenario, l’ammirazione per questo artista diventa enorme: a Mareson di Zoldo, nella chiesa di San Valentino, gli altari sono due, quello dedicato al Santo segna il suo punto d'arrivo, tanto che venne posato solo nel 1734, due anni dopo la morte.
In questo viaggio non può mancare la sua prima commissione importante, il macabro e al contempo vitalissimo “Altare delle Anime purganti” nella Pieve di San Floriano a Forno di Zoldo, tra tutti i suoi lavori forse il più stupefacente per la complessità scenica, per la costruzione architettonica e per l’azzardo inventivo. Impressionante nella definizione anatomica dei corpi, per la fitta sequenza dei particolari nonché per le dimensioni (515 x 351). Quando lo scolpì non aveva che ventitré anni.
I legni pregiati utilizzati dall’artista (a cura di Luigi Torreggiani)
Oltre all’abete rosso e al pioppo, legni comuni e non di particolare pregio, Andrea Brustolon utilizzava tre specie della flora italiana il cui legno è considerato molto pregiato: cirmolo, bosso e pero
.
Il legno di cirmolo, cioè di pino cembro - specie alpina che cresce ad alta quota, spesso insieme al larice - è da sempre tra i preferiti dagli scultori. Si tratta di un legno tenero e leggero, di grana molto fine, facilmente lavorabile e molto profumato, grazie alla presenza di olii essenziali dalle proprietà benefiche. Questo legno molto pregiato è caratterizzato da un aspetto sericeo, lucente. Il suo colore è giallognolo-biancastro nella parte esterna (alburno) e roseo-bruno in quella interna (durame) e una delle particolarità che lo contraddistingue è la presenza di nodi, normalmente considerati un difetto, che in questo caso conferiscono a mobili e arredi un aspetto estetico molto apprezzabile. La sua fibratura è poco regolare, a causa delle difficili condizioni ambientali in cui vivono questi pini di montagna, molto longevi e spesso caratterizzati da forme contorte e ricurve assai affascinanti.
A differenza del cirmolo, il legno di bosso è molto duro e proprio per questo estremamente ricercato per utilizzi di ebanisteria per realizzare strumenti musicali e per torneria. Il
Buxus sempervirens, chiamato appunto bosso, ma anche bossolo, è un arbusto sempreverde diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo, soprattutto in zone aride, rocciose, prevalentemente calcaree. Si tratta di una pianta molto rustica, utilizzata sia per la realizzazione di bordure e siepi, sia per l’arte topiaria (l’abilità di conferire forme particolari, spesso di animali, a singole piante di giardini), dato che resiste bene alle potature. Il suo legno è caratterizzato da un vivace color giallo-arancio, ha tessitura finissima e regolare ed è particolarmente pesante e compatto, tanto che, fra le piante spontanee d’Europa, è l’unico legno che non galleggia in acqua. Essendo un arbusto che raramente supera i tre metri d’altezza, il legno da esso derivabile è stato sempre utilizzato per realizzare oggetti di piccole dimensioni. Un esempio particolare, oltre a sculture minute e ai pezzi degli scacchi, è la scatola di legno, resistente alla salsedine, con cui si costruivano le prime bussole, che pare abbiano preso questo nome proprio dal legno di bosso.
Anche se in misura minore del bosso, pure il pero selvatico è uno degli alberi della nostra flora caratterizzato da un legno particolarmente duro e denso. Tuttavia si lavora con facilità e, grazie alla tessitura fine e alla struttura uniforme, è particolarmente adatto alla fresatura, alla tornitura e all’intaglio. Il colore di questo legno è variabile: parte dall’essere tenue, rosato, ma con l’invecchiare dell’albero vira sul bruno-rossastro fino ad assumere addirittura sfumature violacee. Un utilizzo storico e molto particolare di questo legno, documentato già dal Medioevo e continuato fino alla metà del secolo scorso, era quello di realizzare le righe e le squadre da disegnatore. Il pero selvatico, chiamato anche perastro, si trova sporadicamente dal livello del mare al piano montano in quasi tutte le regioni d’Italia ed è la specie da cui, di selezione in selezione, sono derivate le varietà da frutto oggi coltivate.