"Mia madre era indignata e si faceva una colpa di non essere riuscita a fare di più per impedire quel massacro". Toni Sirena ricorda la madre Tina Merlin
A Trichiana il 19 agosto 1926 nasce Clementina detta Tina Merlin. Staffetta partigiana e giornalista de "L'Unità", documentò i fatti del Vajont, dando voce agli ertani e denunciando le prepotenze dello Stato sui territori montani.
Per ricordarla nell'anniversario della nascita abbiamo dialogato con il figlio Toni Sirena nella convinzione che la madre svolga tutt'oggi un ruolo centrale per il giornalismo di inchiesta e di montagna
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A Trichiana il 19 agosto 1926 nasce Clementina detta Tina Merlin. Staffetta partigiana e giornalista de "L'Unità", documentò i fatti del Vajont, dando voce agli ertani e denunciando le prepotenze dello Stato sui territori montani.
Per ricordarla nell'anniversario della nascita abbiamo dialogato con il figlio Toni Sirena nella convinzione che la madre svolga tutt'oggi un ruolo centrale per il giornalismo di inchiesta e di montagna.
Quando è avvenuta la tragedia del Vajont avevi 12 anni. Tua madre, Tina Merlin, fu la giornalista che seguì il caso Vajont e diede voce agli ertani. Prima partigiana e poi giornalista: cosa la spinse a farsi voce di chi spesso non aveva voce?
“Mia madre veniva da una famiglia contadina, ma di quei contadini di montagna proprietari di mezzo ettaro di terra, il padre emigrante per necessità. Una famiglia numerosa, già con molti lutti alle spalle: tre fratelli morti per malattia o disgrazie, un quarto disperso in Russia e mai tornato, un quinto che morirà – comandante partigiano – negli ultimi scontri contro i tedeschi in ritirata il 26 aprile 1945. Lei, dopo la quarta elementare, aveva dovuto interrompere gli studi e andare a lavorare come domestica prima presso famiglie abbienti del suo paese, Trichiana, poi a Milano seguendo le tracce di una sorella e di molte altre ragazze del posto. Nel 1944 era entrata nella Resistenza, come staffetta di un battaglione partigiano, dunque a 17-18 anni.
Finita la guerra, si era iscritta al PCI, nel 1952 era diventata corrispondente da Belluno dell’Unità, il giornale del partito, dopo essersi segnalata con un racconto pubblicato sulla “pagina della donna”. Scrisse poi in un libro autobiografico: “La Resistenza non è stata un capitolo chiuso. Semmai una porta che s’è aperta”. E la porta era quella di chi aveva fatto una guerra “per una Patria dove anche i contadini e gli operai potessero riconoscersi, e anche le ragazze-serve”. Viene da qui il suo impegno politico e di giornalista, in anni in cui le donne che lo facevano erano mosche bianche, addirittura guardate con sospetto e disapprovazione perché uscivano dai binari segnati e dai ruoli femminili.
Per queste sue radici non poteva non occuparsi della vita e dei problemi della gente dalla quale proveniva e con la quale si trovava in sintonia.
Incrociò la vicenda del Vajont così come si era occupata dei problemi dei montanari, dei contadini, degli emigranti. Erano gli anni in cui si stavano costruendo le grandi dighe della provincia di Belluno, questione centrale dei problemi della montagna. Così si era occupata spesso della vicenda di Vallesella, frazione di Domegge di Cadore, dove la diga appena costruita aveva provocato gravi lesioni ad oltre 100 edifici, così come si occuperà delle vicende della diga di Pontesei, di quella di Arsiè, di quella della valle del Mis. E si occuperà, dopo il Vajont, del progetto della diga di Digonera sopra Caprile, la cui costruzione fu interrotta per le proteste della popolazione. Dovunque c’era di mezzo la Sade (ma non solo), società elettro-commerciale monopolista. Per costruire i bacini artificiali gli abitanti venivano espropriati per pochi soldi e restavano senza quei magri terreni che permettevano loro di sopravvivere, costretti quasi sempre a prendere la strada dell’emigrazione.
Penso che queste storie le bruciassero, non solo per l’ingiustizia (contro la quale aveva partecipato alla Resistenza) ma anche perché le 'sentiva' sulla pelle come storie proprie”.
Che ricordo hai di tua madre nei giorni appena precedenti e in quelli successivi alla tragedia del Vajont?
“Dei giorni precedenti non ho ricordi. Ho un ricordo che però risale al 1960, quando cadde la prima frana nel bacino del Vajont. Con mia madre andai a Erto, sul versante sinistro proprio di fronte a Casso, per vedere cosa era successo. Quella volta c’era anche mio padre. Un ertano, con il quale mia madre era in contatto, ci accompagnò proprio sull’orlo della frana. Si sentivano ancora rotolare sassi ed altro materiale. Poi arrivò, non molto distante, un’auto nera dalla quale scesero alcune persone che mia madre riconobbe come ingegneri della Sade. Così corse verso di loro per rivolgere delle domande, ma non fece in tempo a raggiungerli perché rimontarono subito in macchina e se ne andarono in tutta fretta.
In una fotografia pubblicata nel libro di Edoardo Semenza, il geologo figlio di Carlo, il progettista della diga nonché a capo del Servizio costruzioni idrauliche della Sade, sono convinto di aver riconosciuto nel gruppetto lontano mia madre, mio padre e me stesso oltre all’ertano. La fotografia fu scattata dunque, quasi certamente, da Edoardo Semenza.
La sera del disastro, il 9 ottobre 1963, i miei erano usciti per andare al cinema e io ero solo in casa. Stavo dormendo quando squillò il telefono. Era un amico che voleva avvisare mia madre di aver saputo che “era crollata la diga del Vajont”, come sembrava in un primo tempo. Mi raccontarono in seguito che la proiezione del film si era interrotta perché era mancata la luce, non solo in quel cinema ma in tutta la città. Quando rientrarono li avvisai subito e telefonarono all’amico. Poi in tutta fretta uscirono, lasciandomi a casa, diretti a Longarone. Non poterono però proseguire oltre Ponte nelle Alpi perché avevano messo un posto di blocco. Fu da lì che, da un telefono pubblico, chiamò la redazione di Milano per avvisare di quanto stava succedendo e dare le prime e frammentarie informazioni fornite da chi arrivava, stravolto, dalla zona colpita. Si parlava già di molti morti, forse centinaia.
Il giorno dopo Belluno era letteralmente invasa da mezzi di soccorso arrivati nella notte, che però non potevano più soccorrere nessuno. La città era sconvolta. Mia madre era indignata e si faceva una colpa di non essere riuscita a fare di più per impedire quel massacro. Lo scrisse anche in un articolo, pochi giorni dopo: “Magari fossi riuscita a turbare l’ordine pubblico”. L’aver turbato l’ordine pubblico era il capo di imputazione nel processo intentato contro di lei nel 1960 dal quale uscì assolta con formula piena. L’ordine pubblico, scrisse il giudice Salvini nella sentenza, l’aveva semmai turbato la Sade”.
Dopo 60 anni (ormai 61) quando si parla di grandi infrastrutture (Ponte sullo Stretto, diga del Vanoi o Pista da bob di Cortina per fare alcuni esempi) assistiamo ancora alla prepotenza dello Stato sui territori e sulle comunità. Nel tempo sembra che sia aumentata una certa “inazione” della società civile nell’accogliere queste opere: è così? Siamo diventati più indulgenti?
“Fu prepotenza dello Stato ma fu ancor di più prepotenza di quello “Stato nello Stato” che era diventata la Sade. Entrambi uscirono condannati dal processo che seguì il disastro, nelle persone del capo del Servizio Dighe del Consiglio superiore dei Lavori pubblici nonché membro della Commissione di collaudo della diga, cioè di un alto funzionario dello Stato, e del direttore del Servizio costruzioni idrauliche della Sade che era succeduto a Carlo Semenza. Pene lievi, ma venne alla fine riconosciuta l’aggravante della prevedibilità del disastro.
Ma la storia del Vajont è ancora più inquietante. E’ la storia di una società per azioni che è disposta a tutto pur di incassare profitti (e dividendi per gli azionisti), di controllori che non controllano, di scienziati che si piegano al committente di turno, di tecnici ossequienti, di luminari della scienza che si adattano, di giornalisti che non informano, e così via. E’ anche la storia di un’idea di sviluppo, altamente condivisa all’epoca, che mette in preventivo le vittime e che fa coincidere il concetto di “sviluppo” con quello di “progresso”. E’ un’idea oggi sempre più in crisi, ma che resiste tenacemente perché il suo orizzonte è quello del breve, anzi brevissimo termine, e perché consente di muovere, subito, interessi e soldi, purché, alla fin fine, siano gli altri a pagare. Un sistema strutturalmente corruttivo”.
Accennavamo prima al “nuovo” progetto del Vanoi che spesso viene erroneamente accostato al Vajont dicendo che i territori che hanno visto una tragedia di queste dimensioni non possono accettare nuovi progetti e nuovi invasi. Cosa accomuna e cosa separa questi progetti?
"In realtà il progetto della diga sul Vanoi non è “nuovo”. Nasce molti decenni fa, non so la data con precisione. Di certo c’è che la concessione era stata richiesta già nel 1953, ed era per una diga a scopi idroelettrici ed irrigui. So anche che furono fatti dei sondaggi geologici. Ma poi non se ne fece niente. Oggi il progetto rispunta perché gli irrigatori sono in cerca di nuova acqua per le campagne della pianura, e pare questo il fine principale della diga. Ma già nella seconda metà degli anni 50 era ormai assodato (basta leggere i verbali del consiglio di amministrazione della Sade) che il futuro dell’idroelettrico era a termine. Oltre ad essere diventato più conveniente il termoelettrico (ma si pensava anche allo sviluppo del nucleare), il fatto vero era l’esaurimento delle valli potenzialmente ancora utilizzabili per costruirci una diga. L’occupabile era stato occupato, mettendo dighe ovunque era possibile. I fiumi sono stati artificializzati. Si pensi solo che il Piave, per esempio, ha perso la sua naturalità. Oggi i consorzi irrigui, sulla base di concessioni superate, possono teoricamente prelevare dal Piave più acqua di quella che scorre in alveo.
Il Vanoi è uno degli ormai rari torrenti di montagna che non sono ancora stati sbarrati da una diga.
Il consorzio di Cittadella, che mette la firma su questo progetto, può contare già sull’acqua del lago del Corlo (Arsiè); anche gli altri bacini artificiali vengono svuotati ogni estate, a partire da agosto, per dare da bere alle campagne assetate, oltre che per produrre energia idroelettrica.
Si tratta, sempre, di una vecchia storia: grandi interessi, esterni al territorio, lo sfruttano senza contropartite alle comunità coinvolte, se non quelle dei sovracanoni introdotti a suo tempo come ristoro (molto parziale) dei danni provocati. Il progetto Vanoi si scontra anche con le recenti direttive europee, che prevedono, semmai, la rinaturalizzazione dei fiumi. Il che vuol dire togliere dighe, non metterne di nuove. Sulla questione del Vanoi c’è stata una levata di scudi da parte di comuni e associazioni. La società civile si sta mobilitando."
Un’ultima domanda: nel 1960 Tina fu processata per «divulgazione di notizie false e tendenziose, atte a turbare l'ordine pubblico» e poi assolta. Oggi, mentre il dibattito politico sembra intriso di fake news, l’Unione Europea negli ultimi mesi ha ammonito l’Italia sul numero di querele ai giornalisti. Perché è importante che i giornalisti abbiano coraggio (anche se non dovrebbe servire) di raccontare cosa succede nei territori?
"Fu rinviata a giudizio e poi assolta, in seguito a una denuncia firmata da un vicebrigadiere dei carabinieri, ma dietro c’era probabilmente la Sade. All’epoca – erano gli anni della “guerra fredda”, con il mondo diviso in due parti contrapposte – si faceva spesso ricorso alle vecchie leggi fasciste, che non erano state abolite, per proibire, per esempio, manifesti e volantini che dovevano passare, prima, per l’autorizzazione della Questura. Venivano molto spesso vietati proprio con la formula delle “notizie false e tendenziose” che potevano turbare l’ordine pubblico. Un pretesto per colpire le opposizioni o anche solo le voci critiche, per metterle a tacere. Non importava la verità dei fatti. Oggi succede con le cosiddette “querele temerarie”, nelle quali si chiedono ai giornalisti indennizzi stratosferici. Non importa se poi la querela non viene magari continuata. Lo scopo è quello di intimorire i giornalisti per mettere loro il bavaglio.
Credo che lo scopo vero della denuncia contro mia madre fosse questo: un’intimidazione, per lei e per il giornale, che, in caso di condanna, avrebbe potuto subire conseguenze economiche pesanti. Per fermare le “querele temerarie” occorrerebbe che fosse stabilita una uguale cifra da far pagare al querelante in caso di assoluzione."