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Cultura

"La montagna delle pubblicità e delle cartoline non ha niente a che fare con la vera vita in montagna". Caterina Soffici, storia di una donna che ha incontrato la montagna

Giornalista, scrittrice, conduttrice radiofonica, Caterina Soffici ha pubblicato un curioso diario di montagna “Lontano dalla vetta” in cui racconta, fuor di retorica, la sua avventura di donna che incontra la montagna per necessità, forzata dalla reclusione dovuta al Covid: "Dopo la pandemia, ahimè, i cambiamenti che scorgo sono solo in peggio. Il Covid è stato uno shock per le popolazioni di montagna: hanno visto uno spettro, ovvero la montagna senza sci, che potrebbe essere dietro l’angolo se continuano gli inverni senza neve. Lo sci dei cannoni e della neve sparata non è economicamente sostenibile, senza sostegno pubblico. Reggerà finché le temperature lo consentiranno"

di
Camilla Valletti
27 febbraio | 18:16
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Giornalista, scrittrice, conduttrice radiofonica, Caterina Soffici, con un particolare gusto per l’ironia e una forte capacità critica, ha pubblicato libri che approfondiscono temi contemporanei. Ha sempre guardato all’ambivalenza delle definizioni più sfruttate dai media e dal linguaggio politico decostruendo molti cliché. Per Ponte alle Grazie ha pubblicato un curioso diario di montagna “Lontano dalla vetta” in cui racconta, fuor di retorica, la sua avventura di donna che incontra la montagna per necessità, forzata dalla reclusione dovuta al Covid. Ne escono pensieri e micro incidenti, profili di persone autentiche e una tensione speciale verso la fatica.

 

 

 Ti definisci alpinista ciabattona. Nel senso che alla montagna sei arrivata per necessità e per caso. Pensi che il tuo approccio alla fatica, alla salita come esperienza in sé senza la previsione di conquista, possa rappresentare una sorta di terza via, una formula a metà tra lo sci della domenica e l’alpinismo degli exploit?

 

“Alpinisti ciabattoni” è un libro di Achille Giovanni Cagna, dove si prendono in giro due provinciali che vanno in montagna perché fa figo e ovviamente finiscono nei pasticci. Io non sono così goffa, anche se il mio elemento naturale è l’acqua. Ma trovo che tra la montagna e il mare (non la spiaggia con gli ombrelloni, intendiamoci) ci siano molte affinità: il senso degli spazi, la libertà, il contatto diretto con l’elemento naturale. Il mio approccio alla montagna rispecchia l’approccio alla vita, per me conta di più il cammino che l’arrivo. Quindi direi di sì, che una formula a metà tra il turismo della domenica e l’alpinismo delle cime, potrebbe andarmi bene.

 

 

Nel tuo diario di anno in montagna, racconti di esserti trasformata in un ibrido, da donna di città hai acquisito il tempo e il passo di una donna di montagna. Cosa ti porti ancora sulle spalle rispetto a quella parentesi sospesa?

 

Ho capito cosa significa davvero vivere in montagna, la fatica e la bellezza, la solitudine e la magnificenza. La montagna delle pubblicità e delle cartoline non ha niente a che fare con la vera vita in montagna, soprattutto se delle terre alte. Impari a rispettare il lavoro di chi sta a contatto con gli animali e con la natura. Allevatori, pastori, contadini, boscaioli: sono tutti portatori di conoscenze e sapienze antiche, a rischio di estinzione. In un paio di generazioni si sono persi saperi vecchi di millenni e vivendo per lunghi periodi in montagna ne hai una percezione concreta. Certi valligiani moderni hanno meno rispetto della montagna di certi cittadini cialtroni. I loro avi temevano la montagna e la rispettavano, loro no, vedono solo lo sfruttamento turistico. Visione molto miope.

 

 

Il dopo Covid ha portato a immaginare un ritorno alle valli, ha restituito un senso a vecchie case di famiglia chiuse da tempo, ha generato energie e programmi di ristrutturazione. Ma poi? L’impressione è che tutto quell’entusiasmo si sia spento o tu scorgi dei cambiamenti

 

Dopo la pandemia, ahimè, i cambiamenti che scorgo sono solo in peggio. Il Covid è stato uno shock per le popolazioni di montagna: hanno visto uno spettro, ovvero la montagna senza sci, che potrebbe essere dietro l’angolo se continuano gli inverni senza neve. Lo sci dei cannoni e della neve sparata non è economicamente sostenibile, senza sostegno pubblico. Reggerà finché le temperature lo consentiranno. Ma c’è una paura strisciante che aumenta l’aggressività contro chi viene definito in maniera dispregiativa ‘ambientalista’. L’atteggiamento è quello di: Voi ‘ambientalisti’ non dovete venire a insegnare a noi montanari cosa è la montagna. Quindi quei progetti di ristrutturazione, quella terza via per riabitare la montagna in forma diversa etc. secondo me è stata solo l’illusione del momento. Forse in qualche realtà locale molto specifica, ma credo non sia un trend generale.


Ci sono molte figure di donne nel tuo racconto. Donne che svolgono lavori pesanti vivono in solitudine e addirittura scelgono di vivere in natura al seguito delle capre come la giovane Bea. La montagna allora non è un’esclusiva maschile. Come è possibile declinare una montagna al femminile?

 

“La montagna è madre e matrigna, quindi femminile. La montagna della conquista, quelle delle vette, delle ascensioni, delle sfide, è stata per un paio di secoli a predominanza maschile, perché erano gli uomini a scalare, con pochissime eccezioni. Ma se guardiamo alla cultura della montagna, credo che sia abbastanza matriarcale e le donne del mio racconto ne sono una testimonianza moderna.


Lupi, volpi, aquile e cani. Sono loro i veri compagni e compagne delle tue camminate. Quanto hai appreso dalla vita animale?

 

Anche noi umani siamo animali. Più siamo evoluti, più ci allontaniamo dalla nostra natura animale, che però non sparisce mai del tutto. Il bosco e la montagna ti riportano lì, dove eravamo tutti, prima di finire racchiusi tra le quattro mura dei nostri appartamenti, che hanno i loro bei vantaggi ma che ci allontanano dalla natura ultima delle cose. Per questo, credo, anche nelle città la gente ha bisogno di circondarsi di animali, cani e gatti intendo. Quando ti imbatti in un lupo o in un’aquila, torni a quel contatto primitivo, senza mediazioni. E quindi insieme alla paura provi una forma di rispetto per il selvatico, che era – ed è comunque – in ognuno di noi.

 

 

Con ironia mescolata ad una profonda empatia ti rivolgi ad una figura del canone della natura selvaggia come Thoreau. È raro che lo scambio sia giocato su un piano quasi alla pari, penso, ad esempio all’atteggiamento di sacro rispetto assunto da Paolo Cognetti nei confronti dell’estensore di Walden. Perché hai scelto questa linea di dialogo, di amicizia un po’ critica”.

 

L’idea misantropa e ingenuamente anarcoide che solo nei boschi è l’essenza delle cose, questa idea di natura idealizzata, molto romantica e fuori dal mondo, non mi appartiene. Anche perché non credo che sia vero. Il Thoreau di Walden è affascinante, ma andare per boschi come atto di disobbedienza civile, per «vivere profondamente e succhiare tutto il midollo della vita, vivere in modo vigoroso e spartano e distruggere tutto ciò che non è vita” mi sembra un approccio ottocentesco e troppo naïve. Si rischia, insomma, di fare la fine di Chris McCandless (di Into the Wild). La civiltà non è tutta da rigettare, come il selvatico non è tutto da abbracciare. La parte interessante della lezione di vita nei boschi di Thoreau è che sperimentando le privazioni si apprezzano maggiormente le piccole cose. E questo è quello che la montagna e Walden possono insegnare a chiunque.


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