Contenuto sponsorizzato
Cultura

"Camminare diventa tutt’uno con lo scrivere": Paolo Miorandi e l'indagine del senso ultimo di vagabondare in natura

Paolo Miorandi è nato a Rovereto dove vive e esercita la sua professione di psicoterapeuta. A questa attività, affianca un lavoro specialissimo sulla scrittura e la sua evanescenza a partire da scrittori della tradizione post asburgica. Tra questi, si staglia Robert Walser, uno tra i più misteriosi legati a tale temperie, a cui ha dedicato un libro uscito nel 2021 da Exorma intitolato "Verso il bianco".  Attraverso le parole di Walser,  Miorandi si addentra nel senso ultimo del vagabondare in natura

di
Camilla Valletti
19 giugno | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Paolo Miorandi è nato a Rovereto dove vive e esercita la sua professione di psicoterapeuta. A questa attività, affianca un lavoro specialissimo sulla scrittura e la sua evanescenza a partire da scritturi della tradizione post asburgica. Tra questi, si staglia Robert Walser, uno tra i più misteriosi legati a tale temperie, a cui ha dedicato un libro uscito nel 2021 da Exorma intitolato "Verso il bianco".  Attraverso le parole di Walser, Miorandi si addentra nel senso ultimo del vagabondare in natura.

 

Come e quanto il suo lavoro di psicoterapeuta l’ha portata ad avvicinare  una figura misteriosa come Robert Walser? 

 

Non è stato il mio lavoro in campo psicologico e psicoanalitico a farmi avvicinare alla figura di Robert Walser. L’ho incontrato nel modo più semplice e consueto, mi è capitato tra le mani un suo libro e me ne sono innamorato. Si trattava di Jakob von Gunten, il libro in cui Walser racconta le vicende dell'istituto Benjamenta, la scuola dove si impara a svuotarsi di saperi, progetti, ambizioni invece che accumularne di nuovi. Era per me un periodo  complicato e quel libro, e gli altri che in seguito ho letto ad iniziare da I fratelli Tanner, sono stati una specie di farmaco. Penso che i libri di Walser siano fatti di una sostanza impalpabile e quasi indefinibile che, specie se assunta nei  momenti in cui nostri occhi sono stanchi e indifesi, è capace di restituirci la possibilità di riconoscere la bellezza che c’è intorno, perfino laddove tutto sembra mancanza, inutilità, sconforto. 

 

Lo scrittore svizzero, celebre per il suo racconto “La passeggiata” è  diventato un riferimento di culto per tutti coloro che, oggi, intendono il rapporto con la natura come attraversamento e osservazione. Penso a Franco Michieli o al teorico del viandantismo Luigi Nacci. Sappiamo che Walser trascorse molti anni della sua vita in manicomio, prima di morire.  Cosa rappresentavano davvero quelle lunghe passeggiate in montagna,  per un uomo sostanzialmente recluso? 

 

Per tutta la sua vita Robert Walser è stato un grande camminatore. A piedi ha percorso in lungo e largo le strade della Svizzera e si è spinto fino in  Germania. In manicomio, prima al Waldau vicino a Berna e in seguito nel  manicomio cantonale di Herisau, per sei giorni alla settimana recitava al meglio il copione del matto, accettando le regole del regime manicomiale ed  attenendosi scrupolosamente ai compiti che gli venivano affidati. La domenica  invece partiva per lunghe passeggiate solitarie lungo i sentieri che salivano verso i colli sopra Herisau. Alcune volte all'anno incontrava Carl Seelig e in sua compagnia si spingeva più lontano, nell’Appenzell o nel Canton San Gallo dopo aver fatto un tratto di strada in treno. Seelig, appassionato di letteratura, si impegnò a fondo perché le opere di Walser, già finite nell’oblio, venissero ripubblicate. È anche autore di un famoso libro in cui racconta proprio delle sue passeggiate con Walser. 

 

Per certi versi Walser era preda del Wanderlust, quel desiderio di andare, di  vagabondare senza meta presente nella tradizione nordica, l’impulso a partire animati da un sentimento in apparenza spensierato, ma sotto al quale spesso si agita una forma di inquietudine, di angoscia, di difficoltà o impossibilità a trovare il proprio posto nel mondo. Walser non ha mai avuto una casa,  eccetto la casa dove è nato e, negli anni finali, il manicomio di Herisau. Ha  sempre vissuto in camere d’affitto, oppure ospite di qualcuno, o nella soffitta  di un albergo. Forse proprio il camminare era la sua casa, le nuvole di cui  spesso parla come tetto, le osterie di campagna come cucina dove scaldarsi  e riposarsi, le donne che incontrava, magari anche solo per il tempo di uno  sguardo, come amori da portare con sé.

 

Perché passeggiare è una forma di dispersione, di sparizione quasi? 

 

Nei libri che ho scritto la voce narrante e i personaggi che compaiono sono spesso uomini che camminano, per lo più da soli. Non lo fanno perché sono degli sportivi, non hanno intenti agonistici e non sono alla ricerca di sfide con se stessi. Non sono nemmeno particolarmente interessati agli aspetti naturalistici dei paesaggi che attraversano. In fondo camminano perché il camminare è parte della poesia che cercano e di cui sono capaci. Il loro passo segue cadenze lente e lascia che il mondo gli si faccia incontro senza essere preventivamente costretto all’interno di categorie, propositi, progetti. È una forma di contemplazione o meditazione.

 

Penso ad esempio ai poeti vagabondi della tradizione giapponese. Passeggiare, e passeggiando guardare il mondo che gli scorre accanto, fa emergere certe cose che si portano dentro, ricordi, immagini, parole, cose annidate sul fondo del loro essere e che hanno bisogno dello stato di coscienza particolare che offre un certo modo di camminare perché possano rivelarsi. Perché il mondo esterno e il mondo interno possano incontrarsi è infatti necessario coltivare una forma di accoglienza, una specie di silenzio o di attesa. Per questo camminano, lungo una strada di campagna, attraversando un bosco o costeggiando un fiume. Ma spesso passeggiano anche sotto i portici di un centro storico in una sera d’inverno, o in quelle intricate foreste che sono oggi le grandi città, allo stesso tempo piene di voci e rumori e così silenziose.

 

Se poi questi uomini  sono anche degli scrittori, come nel caso di Walser o di Thomas Bernhard, camminare diventa tutt’uno con lo scrivere. C’è un passo tratto da uno dei testi a cui sto lavorando che dice: «Poi ne avresti incontrato, e più di uno, di tipi strani che mentre camminano si  fanno complicati discorsi, e che muovono le braccia e di tanto in tanto alzano perfino la voce come se volessero convincere qualcuno di quello che si stanno dicendo; talvolta li avresti veduti aggirarsi in ore quasi inesistenti,  lungo desolate strade di periferia dove nessun altro si sarebbe sognato di andare, o fermarsi di colpo in uno spiazzo di erba bruciata per prendersi la  testa tra le mani, come se dovessero stringerla per tenervi dentro i pensieri, e  scrollare poi il capo avendo infine capito che sarebbe stato tutto inutile, che  non sarebbero mai arrivati alla conclusione del discorso e alla soluzione  dell’enigma; ma poi, dopo un momento di assoluta immobilità, pochi secondi in cui il silenzio del mondo sarebbe apparso loro in tutta la sua oscura lucentezza, avrebbero ripreso a muovere la bocca, all’inizio senza emettere  suono e poi producendo lo stentato balbettio degli afasici, per ritrovare a poco  a poco parole via via più decise e il ritmo sbilenco di prima, e solo allora  avrebbero ripreso a camminare e camminando ad agitare le braccia, come in  un’ininterrotta preghiera, perché in loro la cadenza del passo deve per forza seguire quella della parola e senza parola non ci può essere cammino, né strada su cui camminare, né ora del giorno in cui farlo; tipi bizzarri certo,  socialmente inutili, così ti avevano detto quand’eri bambino, ma in fondo non pericolosi, basta non fermarne il passo o interromperne il discorso, ché per  loro non fa differenza, esattamente allo stesso modo in cui ci si deve  comportare con i sonnambuli, guai svegliarli, perché il risveglio improvviso li avrebbe fatti cadere a peso morto in una caduta dalla quale non si sarebbero  più ripresi, rimanendo muti e immobili per il resto dell’eternità».  

 

Notissima è la fotografia del cadavere dello scrittore riverso di schiena  nel candore della neve di Herisau, accompagnato dalle ultime orme  prima di cadere e dal cappello sfuggito al capo. Perché ha deciso  lavorare a partire proprio da questa immagine nel suo lavoro “Verso il  bianco”? 

 

Perché il bianco di quel campo di neve è il punto da cui si parte, è il vuoto dell’origine ed è anche il punto in cui si arriva. E perché quelle alcune impronte di scarpe sulla neve sono le nostre parole, le poche che ci lasciamo  indietro, depositate nel bianco come strani fiori e già sul punto di sciogliersi.

SOSTIENICI CON
UNA DONAZIONE
Contenuto sponsorizzato
recenti
Attualità
| 22 gennaio | 19:45
A New Orleans si è verificata una tra le nevicate più importanti di sempre. "Il sistema climatico è complesso, non possiamo aspettarci che risponda in modo semplice e lineare. In un mondo sempre più caldo non è assurdo che si verifichino locali e temporanei eventi freddi con una frequenza addirittura più alta che in passato"
Attualità
| 22 gennaio | 18:00
La piana del Fucino, in Abruzzo, è uno dei principali poli spaziali europei. L'area è finita sotto i riflettori dei media perché ospiterà il centro di controllo del progetto "Iris2", una delle più importanti iniziative finanziate dall'Unione Europea per sviluppare una rete di satelliti dedicati a fornire connessioni internet sicure ai cittadini europei
Sport
| 22 gennaio | 13:00
Donato al Museo etnografico Dolomiti, è stato esposto dopo un’accurata ripulitura e manutenzione che lo ha portato all'originario splendore
Contenuto sponsorizzato