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Cultura

"Abbiamo sempre una possibilità di scelta, di azione, di resistenza". Lo scrittore Paolo Malaguti si racconta con i suoi libri

Paolo Malaguti è uno scrittore decisamente fuori dagli schemi. Con una lingua dalla variabilità dialettale e una profonda conoscenza di luoghi e memorie, ha scritto romanzi che ricostruiscono ambienti e vite minime dalla portata universale. I suoi ultimi romanzi "Se l'acqua ride"; "Il Moro della cima" e "Piero fa la Merica" sono stati pubblicati da Einaudi

di
Camilla Valletti
11 febbraio | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Paolo Malaguti è uno scrittore decisamente fuori dagli schemi. Con una lingua dalla variabilità dialettale e una profonda conoscenza di luoghi e memorie, ha scritto romanzi che ricostruiscono ambienti e vite minime dalla portata universale. I suoi ultimi libri "Se l'acqua ride"; "Il Moro della cima" e "Piero fa la Merica" sono stati pubblicati da Einaudi.

Il suo lavoro, letterario e saggistico, è intrinsecamente legato al territorio Veneto inteso in una versione molto lontana dagli stereotipi. Il suo realismo è a suo modo fantastico, come se certi luoghi, Asolo e Bassano per esempio, potessero dare vita a esperienze umane universali. Come è nato questo dialogo? Perché le sue storie hanno sempre un sapore di epica del vero?

 

In realtà il mio rapporto narrativo con certi luoghi della pedemontana e dell'arco alpino del Veneto è nato sull'onda di una "autopercezione di ignoranza": quando mi sono trasferito da Padova a Borso del Grappa, nel 2005, mi ha molto colpito e impressionato la ricchezza di storia e tradizioni che ancora oggi si percepisce in molte zone, quando si toccano argomenti cardine della storia recente, dalla Grande Guerra all'emigrazione. Cresciuto in un contesto urbano alquanto "sradicato" sia sul fronte delle tradizioni che su quello del paesaggio, ho senz'altro subito la fascinazione della ricchezza e della complessità della "provincia". Sono partito quindi in un percorso di avvicinamento, grazie alla mediazione di amici appassionati di storia locale, guide escursionistiche, racconti che raccoglievo anno dopo anno, da un libro o dalla viva voce di qualche "cantastorie".

Il realismo che cerco di inseguire nei miei libri deriva anche da un profondo innamoramento letterario nei confronti di Meneghello in particolare, del suo modo lucido e raffinato di rappresentare un mondo domestico ma anche violento, allucinato, che pare lontanissimo eppure coesiste in qualche modo ancora oggi con la nostra modernità. L'altro grande modello per quella che lei ha definito "l'epica del vero" è senz'altro Rigoni Stern: la sua scrittura ci ha donato tanti "piccoli eroi", che si muovono nella grande Storia mantenendo le radici saldamente vincolate alle forze profonde del paesaggio e della natura. Un ultimo ingrediente che cerco sempre di mescolare nella pagina, e che credo contribuisca alla costruzione del mio stile, è l'umorismo, che letterariamente derivo di nuovo da Meneghello, ma anche da Guareschi. Credo che la capacità di ridere e sorridere delle disgrazie, anche quelle più profonde, la capacità cioè di non rinunciare a una visione di speranza, fosse uno degli elementi cardine della civiltà rurale sopravvissuta alle due guerre mondiali e scomparsa con il boom degli anni Sessanta. Credo che quella dei nostri nonni fosse una civiltà seria, ma non seriosa. 

Nei suoi libri è fondamentale l’uso di una lingua quasi infettata dal dialetto. Un italiano che si rifonda nell’oralità con una prospettiva molto originale. Cosa ne pensa dell’uso coloristico del dialetto da parte di molti scrittori e scrittrici italiane?

 

Probabilmente la mescolanza tra italiano e dialetto è l'unico tratto comune a tutti i libri che ho scritto in questi anni. Uno scopo di questa scelta è proprio ricostruire nella pagina un'ombra della realtà che sto raccontando, attraverso alcune parole che fanno sentire (e forse aiutano anche a vedere) certi ambienti, certi oggetti o certe esperienze di vita. Mi piace usare il dialetto anche perché lo trovo estremamente affascinante: io non sono stato educato al dialetto, sono cresciuto senza parlarlo, e solo da adulto ho fatto la pace con quel senso di "vergogna delle radici" che i miei genitori mi avevano passato. Quindi per me l'utilizzo del dialetto o delle espressioni popolari nella pagina è anche uno strumento di riavvicinamento affettivo al mondo dei miei nonni, con i quali non ho mai davvero comunicato a causa di questa diversità linguistica. Sono felice che in qualche modo si diffonda l'uso dei vari dialetti nella narrativa contemporanea. Viviamo in un paese con una storia linguistica strana: di norma prima si forma una lingua parlata comune, e poi su questa lingua si modellano i codici letterari. L'italiano è andato alla rovescia: è nato come lingua letteraria e come tale ha continuato ad esistere, mentre di fatto l'italiano parlato è un prodotto della cultura televisiva e dell'ultima scolarizzazione. Noi quindi ci troviamo ad avere ereditato un patrimonio linguistico fenomenale, ricchissimo, diversificato, un caleidoscopio di parole e di suoni che, dal Trentino fino alla Sicilia, costituisce un'arma espressiva di una potenza inaudita, a patto che chi scrive e chi legge accettino la sfida del gioco linguistico, della non piena comprensione, insomma della inesauribile capacità di ogni lingua di sorprenderci e arricchirci.

La conoscenza della storia materiale, delle pratiche di sopravvivenza, dei mestieri scomparsi sono molto presenti nei suoi romanzi, quasi che la sua idea di letteratura fosse anche testimonianza del mondo dei vinti, dei sommersi. Mi sbaglio?

 

Trovo commovente quando incontro storie di "personaggi minimi", e posso cercare di dare loro voce attraverso un romanzo. In qualche modo mi pare di riparare a una forma di violenza della Storia, che esalta i nomi dei "grandi", mentre le masse scompaiono nonostante il loro ruolo cruciale, e al massimo vengono "usate" dalle ideologie e dalle retoriche dei potenti, come accadde ai caduti della Grande Guerra "usati" nei sacrari fascisti. Ecco, dal momento che la letteratura si occupa di "storie", cioè di persone, mi piace approfittare di questo meccanismo per dare voce e centralità a quella marea umana di cui siamo nipoti o pronipoti. Trovo utile questa dinamica non solo per "illuminare" gli umili del passato, ma per prenderli come esempio per noi che viviamo il presente. Per quanto all'apparenza siamo piccoli di fronte ai potenti del nostro tempo, in ogni caso non saremo mai del tutto inerti, abbiamo sempre una possibilità di scelta, di azione, di resistenza. 

 

 

Eppure la due grandi guerre sono nel suo lavoro di rilettura anche occasioni di novità, di movimento, di irruzione del futuro in un mondo immobile. Sembra un paradosso ma non lo è. Perché?

 

Da sempre i grandi momenti di crisi, anche quelli violenti come i conflitti, sono potenti generatori di novità e cambiamento. Basti osservare quanto cambiano la medicina, o l'alimentazione, o la condizione femminile durante la Grande Guerra, o basti riflettere sul fatto che, senza l'orrore del secondo conflitto mondiale, forse il percorso del nostro paese verso la democrazia e la repubblica sarebbe stato più lento. Di fatto non esiste il periodo storico "bello" e il periodo storico "brutto". Esiste il tempo in cui ci è dato vivere. Quindi la variabile in effetti non è se nasciamo in un momento di pace, fioritura economica, o al contrario in un periodo di guerre e di povertà diffusa. Questa scelta non spetta a noi. La variabile è cosa possiamo e vogliamo fare per lasciare una traccia buona nel nostro tempo. Per questo quando cerco di ricostruire un periodo storico mi sforzo di rappresentarlo nella sua complessità, che non è mai (grazie al cielo) unilaterale e monocroma.

Come lavora sulle fonti? Come riesce a scovare certi personaggi come l’ormai celebre Agostino Faccin?

 

La ricerca delle fonti è un po' come l'andare a funghi. A volte cammini per ore e non trovi nulla che ti interessi, altre volte fai tre passi e ti imbatti in un porcino, altre volte non stai nemmeno cercando funghi, e quasi ci inciampi sopra. Di certo avere un po' di occhio aiuta, e mi rendo conto che, rispetto a qualche anno fa, adesso riesco a "fiutare" dove possa nascondersi una storia interessante con più facilità. Ma questo lavoro di ricerca è, a mio avviso, comunque sempre facile, perché viviamo in un paese così ricco di storia, così stratificato, che davvero, a volte le storie letteralmente ti saltano addosso. Del resto, come scrive Calvino in "Fiabe italiane", la storia non è così importante, tutto sta in come la si racconta. A volte abbiamo di fronte agli occhi (nelle vicende della nostra famiglia, nella comunità in cui viviamo) delle storie bellissime, dei "romanzi potenziali", ma le diamo per scontate, oppure le abbiamo sentite così tante volte che non ci sembrano niente di che. Eppure siamo letteralmente circondati dalle storie, dovremmo imparare di nuovo a raccontarle, a farci "portatori sani" di storie, verso chi ci sta vicino. Credo che sia un gesto di affetto e di cura bellissimo e mai vano.

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