"È sempre la mancanza a dare valore a un’esperienza". Intervista a Franco Michieli, geografo, esploratore, scrittore
Franco Michieli è un uomo preciso che sa unire alla osservazione scientifica una autentica fascinazione per la "wilderness". Geografo, esploratore, scrittore e garante internazionale di Mountain Wilderness, ha scelto di vivere nelle Alpi. Le sue traversate, a piedi o con gli sci, sono condotte all’insegna del purismo, senza alcun ausilio tecnologico. Ha appena pubblicato per Ponte alle Grazie “Le vie invisibili. Senza traccia nell’immensità del Nord”. I suoi libri precedenti tra cui “La vocazione di perdersi” per Ediciclo e “L’abbraccio selvatico delle Alpi” hanno ottenuto uno straordinario riconoscimento di pubblico
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Franco Michieli è un uomo preciso che sa unire alla osservazione scientifica una autentica fascinazione per la "wilderness". Geografo, esploratore, scrittore e garante internazionale di Mountain Wilderness, ha scelto di vivere nelle Alpi. Le sue traversate, a piedi o con gli sci, sono condotte all’insegna del purismo, senza alcun ausilio tecnologico. Ha appena pubblicato per Ponte alle Grazie “Le vie invisibili. Senza traccia nell’immensità del Nord”. I suoi libri precedenti tra cui “La vocazione di perdersi” per Ediciclo e “L’abbraccio selvatico delle Alpi” hanno ottenuto uno straordinario riconoscimento di pubblico.
Lei è un geografo di formazione. Come ha conciliato la sua competenza culturale con quella che lei ha definito la “vocazione di perdersi”? Come fare a rispettare i confini stabiliti dalle convenzioni umane rispetto alla natura dell’esplorazione libera di cui lei è uno dei maggiori esponenti?
Saint-Exupéry, ne Il Piccolo Principe, presenta il geografo come un vecchio signore che scrive grossi libri: «Il geografo è troppo importante per andare in giro. Non lascia mai il suo ufficio, ma riceve gli esploratori, li interroga e prende degli appunti sui loro ricordi». Il vecchio geografo afferma poi che è molto difficile che una montagna o un oceano cambino di posto, perciò, conclude, «Noi descriviamo delle cose eterne». Oggi non solo sappiamo che montagne e oceani continuano a formarsi, a spostarsi e a scomparire; è la percezione tradizionale del mondo che è stata travolta, perché la vita dell’uomo avviene dentro la rete: non c’è più un centro, non c’è spazio e non c’è tempo. Qualunque dato, inviato da qualunque luogo, appare all’istante in ogni altra coordinata dei vari continenti. E allora come facciamo a rappresentare la Terra odierna? Viviamo in una fase di totale sperimentazione di una nuova geografia, che io indago facendo il contrario del geografo di Saint-Exupéry: vado in giro e interrogo direttamente il divenire della terra e del cielo, senza portare con me strumenti per l’orientamento e informazioni, così che il mio viaggio dipende da ciò che il mondo esprime concretamente, nel suo linguaggio. La vocazione di perdersi sperimenta una geografia capace di ricollegare l’essere umano alla Terra reale, piena di misteri e di meraviglie che la virtualità ha abolito.
Per me vale la definizione etologica: esplorare vuol dire vagare o viaggiare senza un programma, attenti a cogliere qualcosa di nuovo o significativo lungo il cammino. In un passo decisivo di Siddharta, Hermann Hesse lo dice con parole indimenticabili: «Cercare significa: avere uno scopo. Ma trovare significa: esser libero, restare aperto, non avere scopo». Accettare di potersi perdere per poter trovare è certo un approccio controcorrente. Ma io non dichiaro in anticipo ciò che intendo fare, lo racconto a cose fatte. Il vissuto positivo è meno attaccabile.
Lei dichiara di essere stato ispirato da Thoreau, come in molti altri casi di scrittori viaggiatori. Qual è il suo Thoreau? Il Thoreau nel quale si riconosce di più?
Ci sono sempre molte fonti di ispirazione e forse le più importanti sono inconsce e assorbite durante esperienze dell’infanzia. Ho trovato un riferimento in Thoreau grazie al legame con la natura evoluto da bambino. La prima vicinanza è il desiderio di trascorrere del tempo duraturo negli ambienti selvatici. Thoreau passò circa due anni nei boschi presso il lago di Walden, consapevole del valore della permanenza e della continuità. Quando a 19 anni partii per attraversare a piedi le Alpi da Ventimiglia a Trieste, senza tenda e deciso a dormire all’aperto per tre mesi, desideravo la stessa cosa: immergermi nella vita delle Alpi giorno e notte, senza interruzioni. Ancora più immersiva fu la traversata della Norvegia, durata 150 giorni. Il mio Thoreau è anche quello che vede nell’esperienza della natura un viaggio alla scoperta dell’esistenza. Quello che scrive: «Il camminare di cui io parlo non ha niente a che vedere con l’esercizio fisico propriamente detto, simile alle medicine che il malato trangugia a ore fisse [...]. È l’impresa stessa, l’avventura della giornata. Se volete fare esercizio, andate in cerca delle sorgenti della vita. Come è possibile far roteare dei manubri per tenersi in salute, mentre quelle sorgenti sgorgano, inesplorate, in pascoli lontani?».
E poi c’è la grande idea della «disobbedienza civile». Solo grazie a questo tipo di disobbedienza possiamo sperare di redimerci.
E’ stato un teorico della camminata che si potrebbe definire “ascetica”. Perché pensa che in questo nostro tempo abitato dalla tecnologia sia necessario spogliarsi di tutto, anche dell’orologio, per riuscire ad entrare in contatto con l’ambiente?
La posta in gioco non è soltanto il contatto con l’ambiente: si tratta di riscoprire e recuperare potenzialità insite nella relazione con gli eventi spontanei, quelli che spesso consideriamo casuali, indifferenti, addirittura contrari ai nostri obiettivi; o che non notiamo proprio in quanto estranei ai nostri piani. Partire senza tecnologie per l’orientamento e le telecomunicazioni significa affidarci per forza alla ricchezza degli eventi quotidiani e ai loro silenziosi suggerimenti. Accadimenti minimi, come il breve apparire del sole nelle brume durante una giornata di tempesta, cambia tutta la prospettiva: la rotta si rivela da sé nella vastità nebbiosa. Quando ciò accade per settimane il nostro sguardo si trasforma; diventiamo attenti a ciò che ci sta intorno e a come sia sufficiente a guidarci. Emerge la differenza tra ciò che conta e il superfluo. Nel mio ultimo libro, Le vie invisibili (Ponte alle Grazie 2024) riporto un’impressione che mi ero annotato dal vivo durante una traversata nordica tempestosa: «È sempre la mancanza a dare valore a un’esperienza. Tutta la crescita, tutta la conoscenza, dipendono da ciò che non si ha. Più cose utili e funzionali abbiamo, più ci sono nascoste le verità del mondo vivente. Le verità ultime sono attingibili solo nel momento in cui non si ha quasi nulla, quasi nessuna protezione. È questo che devo raccontare col mio lavoro».
Lei ha raccontato delle sue traversate in solitaria ma anche del peso importante che hanno avuto i suoi compagni e le sue compagne di viaggio. In quale condizione si è trovato meglio?
Viaggiando a piedi mi sono sempre trovato bene, sia in compagnia umana che in solitudine. Sono due condizioni complementari. Condividere avventure non comuni permette di aiutarsi nelle situazioni più impegnative, ma anche di confermarsi a vicenda che certi momenti straordinari non sono stati illusioni, ma veri; è importante, perché rientrati nella civiltà può sembrare che tutto vada diversamente.
Anche la solitudine è preziosa. Quando tutta la responsabilità del percorso e delle scelte ricade su di me, la mia attenzione cresce, scompare la distrazione. Devo badare io alla rotta senza perderne la coscienza neanche per un attimo; ed essere guida di sé stessi insegna tutto sulla lettura dell’ambiente.
Come nasce la grande fascinazione che sente per la Norvegia, per il grande Nord? Come possono essere associate le nostre Alpi?
In parte è un mistero. Immaginando la Norvegia e altre regioni nordiche, ne ero già affascinato prima di averle conosciute dal vivo. Nel corso di una quarantina di viaggi nella natura delle terre sparse nell’Atlantico settentrionale, tra Norvegia e Groenlandia, ne ho scoperto le motivazioni concrete. Prima fra tutte la vastità e varietà della wilderness, dove spesso ambienti contrastanti si trovano ravvicinati: la montagna e il mare, il ghiaccio e la tundra. E la conformazione dello spazio, che permette di vagare quasi sempre in ogni direzione, inventando percorsi a vista. Queste potenzialità sono esaltate da codici di leggi diffuse in quei Paesi, che si possono riassumere nel termine Allemannsretten («il diritto di ogni uomo» in norvegese), cioè il diritto di poter frequentare ogni area naturale, anche privata, a piedi, con gli sci, in canoa, e di potervi campeggiare liberamente, purché a 150 metri di distanza dagli abitati. Si tratta di una grande scelta di civiltà: gli Stati riconoscono che la natura è un bene fondamentale per la formazione dei cittadini.
Sulle Alpi il rapporto con la wilderness ha una tradizione più breve e controversa e attualmente la montagna è trattata come un luna park turistico, dove si pretende una sicurezza garantita. Tuttavia le aree poco attrezzate consentono anche qui esperienze selvatiche e rivoluzionarie per la persona: bisogna mettere più impegno nell’evitare mete celebrate e nel coltivare il nascondimento.
Perché, anche quando ne ha sentito il bisogno, non ha mai indugiato nell’incontro con altri viaggiatori e viaggiatrici? Nei suoi libri sono presenze quasi fantasmatiche…
È il contesto stesso di molti dei miei viaggi a rendere rari e fugaci gli incontri con altri viaggiatori e viaggiatrici. In vari casi i miei compagni e io abbiamo attraversato grandi vastità senza incontrare nessuno, se non in rari villaggi, anche per un mese di seguito. A volte un incontro casuale nella grande solitudine è arrivato talmente di sorpresa da non lasciarmi il tempo di trovare parole da dire oltre a un saluto, e lo stesso dev’essere capitato all’altra persona. Devo aggiungere che nella scrittura è necessario scartare molti episodi per non essere ridondanti: bisogna fare una selezione. Nel mio caso considero primario dare spazio a personaggi naturali: per troppo tempo le narrazioni letterarie e cinematografiche hanno seguito un’impostazione crusoeiana, dove l’uomo è sempre al centro e con la sua razionalità controlla e vince la natura. Oggi vediamo bene dove ci ha portati questa stupida pretesa. Tengo quindi a invertire la rotta letteraria: non gira tutto intorno all’uomo. Voglio esaltare il ruolo delle creature e delle forze naturali nelle vicende di ogni avventura, più decisivo degli incontri fugaci con altri umani.
E gli animali, quanto li sente vicini?
Fin da quando ero bambino mi sono sentito in grande comunanza con gli animali. In effetti non ho mai potuto non considerarli persone. E in un ambiente selvaggio la presenza di animali selvatici crea un forte senso di compagnia. In cammino cerco di muovermi in modo da disturbarli il meno possibile, se necessario cambiando percorso o tornando indietro, specie se scorgo madri con i piccoli.
Gli animali migratori hanno ispirato il mio approccio all’orientamento naturale. Ma da ogni vivente diverso da noi abbiamo tantissimo da imparare per recuperare la nostra umanità.
Il mio legame più forte con un animale l’ho provato durante i 15 anni di vita assieme al cane di famiglia Lampo. È diventato il mio più fedele compagno nelle uscite in montagna, con la sola esclusione dei viaggi all’estero. La somma delle nostre percezioni e sensibilità moltiplicavano la ricchezza di ogni piccola avventura. Quando è mancato è scomparsa anche una parte di me.
Continuerà a esplorare con la stessa povertà di mezzi o col tempo ha un po’ addomesticato la sua natura, per così dire, francescana?
Direi di no; anzi, all’aumentare dell’età e dell’esperienza trovo sempre più significativo restare fedele alla povertà di mezzi e informazioni. Forza fisica e agilità diminuiscono, percorro meno chilometri ed evito certi exploit, ma il desiderio di avvicinare «le fonti della vita» resiste. Non è solo una questione personale: è la crisi dell’umanità e dell’ambiente a richiedere con urgenza di mantenere il contatto con ciò che accade fuori dalle Colonne d’Ercole. Il limite oltre cui c’è il nuovo ignoto, dove si trovano soluzioni che la mente stregata dalla virtualità non vede più, è l’involucro invisibile della rete. Uscire dal web, non avere campo, è il grande viaggio che forse nessuno si sente più di affrontare. Essere quel Nessuno, cioè l’Ulisse odierno, è un compito irrinunciabile a ogni età, per chi accetta una responsabilità verso il futuro della vita. Conservare una natura francescana, abbracciata corpo e spirito alle creature, è il contrappeso che ora servirebbe a tutti per reggere l’assalto dell’intelligenza artificiale.
Crede che nelle nuove generazioni sia ancora presente la necessità di incontrare una wilderness lontana dagli stereotipi?
Penso che molti, tra le nuove generazioni, siano più in gamba di chi li ha preceduti. Vedo molti giovani che pur in un mondo senza prospettive hanno motivazioni serie e passione: dopo un periodo di scarso impegno, forse rinasce la volontà di lottare. Ritengo che l’attrazione verso una wilderness autentica sia sempre viva, ma rispetto alla mia gioventù c’è un elemento del tutto diverso: lo smartphone, con tutte le sue note applicazioni. Presto ci saranno tutor virtuali che guideranno attraverso qualsiasi luogo selvaggio della Terra. I cinquantenni di sicuro si consegneranno entusiasti alla schiavitù. Alcuni ventenni forse si faranno una risata e capiranno di potersi liberare.