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Attualità

“Spazi decontestualizzati rispetto al paesaggio possono incentivare comportamenti più rumorosi e sregolati". Luca Gibello racconta il rapporto tra rifugi e fruitori

Esiste una relazione tra lo spazio e il suo fruitore? Possono le scelte stilistiche con cui è stato progettato un rifugio definire il comportamento e le emozioni di chi lo frequenta? Lo abbiamo chiesto a Luca Gibello, direttore de Il Giornale dell’Architettura e presidente dell’associazione Cantieri d’alta quota che nel suo lavoro di ricerca ha spesso unito l'interesse per la storia dell'architettura alla passione per l'escursionismo e l’alpinismo: “Rifugio è quello spazio che ci fa percepire un senso di protezione rispetto all’infinitamente grande dell’esterno"

di
Daria Capitani
30 marzo | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Esiste una relazione tra lo spazio e il suo fruitore? Possono le scelte stilistiche con cui è stato progettato un luogo definire il comportamento e le emozioni di chi lo frequenta? Nel dibattito sul senso più autentico da attribuire alla parola rifugio (ne abbiamo parlato qui), c’è ancora una luce che merita di essere accesa.

Enrico Camanni nel suo libro “L’incanto del rifugio” lo definisce “protezione dalla notte”, Carlo Alberto Pinelli “un ponte tra gli esseri umani, figli del loro tempo, e la grandiosità a-temporale dell’alta montagna”. Sono i due riferimenti da cui parte Luca Gibello per dare la sua definizione di rifugio. Direttore de Il Giornale dell’Architettura, presidente dell’associazione Cantieri d’alta quota e autore di diversi volumi tra i quali “Rifugi e bivacchi. Gli imperdibili delle Alpi. Architettura, storia, paesaggio” con Roberto Dini e Stefano Girodo, nel suo lavoro di ricerca ha spesso unito l'interesse per la storia dell'architettura alla passione per l'escursionismo e l’alpinismo (ha salito tutti gli 82 Quattromila delle Alpi). “Rifugio è quello spazio che ci fa percepire un senso di protezione rispetto all’infinitamente grande dell’esterno - spiega -. Uno spazio di decompressione, intimo, in grado di cullarci almeno per un attimo prima di misurarci con quel mondo fantastico e al tempo stesso selvaggio che è la natura là fuori. Un ricovero che deve rimanere ancestrale perché risponde a una necessità primordiale dell’uomo. Se perde quella valenza e si avvicina sempre più a un albergo, un autogrill o una discodance, allora varcando la sua soglia non avremo più la percezione di entrare in un posto in cui è ancora possibile vivere un’esperienza di raccoglimento".

 


Lo storico e critico di architettura Luca Gibello.

 

Esistono delle interconnessioni tra percezione dello spazio e neuroscienze. Alcune Facoltà di Architettura lavorano proprio su questo: studiano come la dimensione del luogo, i colori e i materiali influenzano i nostri comportamenti. “Certi spazi più anonimi, meno curati e decontestualizzati rispetto al paesaggio che li circonda possono costituire un incentivo a comportamenti più rumorosi e sregolati - continua Gibello -. Accade anche in quota, dove l’interior design condiziona le modalità di fruizione. Al Berghütte Hosaas, 3200 metri in Svizzera, la formula self service, con vassoi e rastrelliere da prendere e posare in autonomia, fa sentire il cliente come se si trovasse in un autogrill, il volume delle voci si alza e anche gli atteggiamenti si fanno più caotici. Al Monterosahütte, sempre in Svizzera, 2880 metri di altitudine, un intervento curato al dettaglio in cui il legno è dominante e l’organizzazione reticolare crea piccole aree dove possono mangiare non più di 8-10 persone, si respira aria di casa, rifugio, riparo. A casa non si urla, si rispetta lo spazio altrui, in un’atmosfera raccolta e intima”.

 


Berghütte Hosaas, Svizzera.

 


Monterosahütte, Svizzera. [Foto Giorgio Masserano; Cantieri d'Alta Quota]

 

C’è una relazione tra intimità dello spazio e selezione dei materiali: “Credo che aiutino a creare una dimensione più intima quegli edifici che, pur avendo all’esterno l’immagine di un guscio metallico freddo e algido, siano in grado di autoregolarsi all’interno, involucri ad alte prestazioni. In questo modo, si viene a creare una chiara dicotomia tra interno ed esterno che ha un impatto maggiore nel momento in cui si entra, dando la percezione di approdare in un altro mondo”. Dal punto di vista contestuale, secondo Gibello “si può avere un vantaggio nell’adottare soluzioni estreme ad altezze che presentano rimandi ambientali molto più limitati. Sui ghiacci ci si trova di fronte a una configurazione semantica e paesaggistica tutt’altro che variegata: questo implica scelte più radicali. Il rifugio hi-tech Goûter in Francia sul Monte Bianco è l’esempio di un’assonanza tra ambiente esterno e soluzione iper tecnologica”.

 

Che cosa distingue un rifugio da un hotel? “Io penso che la presenza di un sentiero per raggiungerlo possa essere un discrimine. Se si utilizza l’auto o un mezzo di risalita meccanica, l’atteggiamento psicologico del fruitore cambia. E il custode abbia il coraggio di fare selezione”. Rifugio, conclude Gibello, “è un luogo di condivisione e promiscuità nel senso positivo del termine, dove al posto della camera doppia con bagno c’è un camerone in cui si ha cura di non disturbare gli altri. Uno spazio in cui accettare, condividere, limare le proprie esigenze per affrontare il tema della libertà altrui. In questo mondo di narcisismi e individualismi, il rifugio è ancora un luogo che ci costringe a limitare i nostri egoismi. Non trasformiamolo, fermiamoci un attimo prima di perdere un modello di socialità straordinaria, un bell’esempio di umanità che condivide un piccolo spazio”.

 

 

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