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Ambiente

Una ricerca mostra gli effetti della pandemia di Covid-19 sul rapporto tra fauna e uomo: i grandi carnivori e onnivori sono i più sensibili alle variazioni della presenza umana

Una ricerca realizzata da 220 ricercatori e ricercatrici di più di 21 paesi ha studiato gli effetti delle misure di contenimento messe in atto durante la pandemia di Covid-19 sulla interazione tra uomo e fauna in migliaia di siti sparsi in tutto il mondo. A raccontarci i risultati uno dei co-autori, Marco Salvatori, ricercatore del Museo delle Scienze di Trento

di
Sofia Farina
20 marzo | 12:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

“Il periodo della pandemia del 2020 è stato, nella sua tragicità, un periodo molto particolare che ha consentito alla comunità globale di ecologi e zoologi di verificare dei cambiamenti nel comportamento e nell'ecologia di molti animali” racconta Marco Salvatori, uno dei 220 co-autori (di 21 paesi!) di uno studio, appena pubblicato sulla rivista internazionale Nature ecology and evolution, che ha analizzato l’impatto dei cambiamenti delle attività umane indotte dalla pandemia da COVID-19 (tra il 2019 e il 2021) sulle abitudini dei mammiferi selvatici. 

 

Sebbene i specifici effetti osservati variano a seconda del contesto ambientale, alle dimensioni e alla dieta delle specie studiate, in generale è emerso che con il ritorno dell’attività umana negli ambienti naturali più integri, dopo i lockdown, i mammiferi hanno ridotto la loro attività evitando le persone, mentre negli ambienti più antropizzati sono risultati più attivi e più notturni. 

 

E’ stato un esperimento non programmato ma molto interessante - spiega Salvatori - da cui si possono ricavare tante scoperte, mettere in luce nuovi aspetti del rapporto fra uomo e fauna in un momento storico, l'Antropocene, in cui l'impatto dell'umanità sulla biosfera è profondo e soprattutto in espansione in gran parte del globo”. La situazione è stata così inedita e particolare che è stato coniato un termine specifico “antropopausa, la pausa della presenza umana in ambiente e su questo si stanno accumulando diverse ricerche”.

 

I grandi carnivori e i grandi onnivori (come l’orso e il cinghiale) sono risultati i più sensibili alle variazioni della presenza umana legate alle restrizioni Covid-19. In particolare, i grandi carnivori hanno mostrato una marcata tendenza ad evitare le persone quando sono ritornate a frequentare le aree naturali, mentre “i grandi onnivori sono un caso particolarmente interessante perché hanno diminuito molto la loro attività con la ripresa della presenza umana in contesti urbani e suburbani, soprattutto nelle zone più più antropizzate”. Spiega Salvatori che “questo dato è interessante perché vuol dire che potrebbero essere attratti dalle fonti di cibo artificiali, come i rifiuti, che probabilmente era meno rischioso raggiungere durante i lockdown.  Questo ci ricorda ancora una volta quanto sia importante gestire bene i rifiuti e le fonti antropiche di cibo in generale per evitare che questi animali si avvicinino troppo ai paesi e alle città, evitando così possibili conflitti”.

 

Che i grandi carnivori siano risultati la categoria più sensibile ai cambiamenti della presenza umana “non sorprende perché avendo un passato di grande persecuzione da parte dell'uomo sono particolarmente sensibili alla presenza umana e tendenzialmente cercano di evitarla in ogni modo”. Inoltre, in termini generali “animali più grandi che hanno necessità spaziali maggiori tendono a evitare maggiormente le persone, rispetto ad animali di specie più piccole, come ad esempio la volpe e la lepre che riescono a vivere anche in zone più antropizzate avendo la possibilità di nascondersi più facilmente”.


Fonte: Muse

Questi risultati, in particolare, sono particolarmente evidenti se ci si concentra sulla scala locale delle ricerche. Tuttavia lo studio, nel suo complesso, ha riguardato un numero di aree molto alto, sparse in tutto il globo, infatti “lo studio è nato grazie ad un’iniziativa dell'Università della British Columbia, che ha inviato a centinaia di gruppi di ricerca una richiesta di condivisione dei dati per studiare gli effetti della pandemia sulla fauna utilizzando i dati di fototrappole”. Alla chiamata hanno risposto più di 100 gruppi di ricerca, con progetti localizzati principalmente in Nord America ed Europa, “ma alcuni anche in Cile, Indonesia e altre zone nell’emisfero meridionale”. La mole di dati analizzati è notevole: “più di 5000 siti di fototrappole” racconta Salvatori.

 

Le fototrappole, per chi non avesse dimestichezza con questo termine, sono “uno strumento che nasce inizialmente per scopi ludici, per immortalare gli animali a vantaggio di appassionati o cacciatori” spiega il ricercatore “ma nel tempo si sono affermate anche come un ottimo strumento di studio, se utilizzate con rigore”. Infatti, si tratta di “uno strumento che va utilizzato con dei protocolli molto robusti, standardizzati, sistematici e ripetuti nel tempo e tendenzialmente negli stessi posti”. Proprio la sistematicità di questi progetti di ricerca ha consentito di ottenere delle informazioni durante la pandemia perché  “molti progetti erano pronti a misurare questo cambiamento così inaspettato e profondo dell'attività umana”.

 

Lo studio ha messo in luce una netta differenza fra ambienti naturali e ambienti antropizzati nella tolleranza agli umani e ai rischi associati alla presenza delle persone. Alla ripresa delle attività umane le specie presenti in ambienti intensamente modificati dagli esseri umani, come aree urbane e suburbane, hanno aumentato i loro movimenti, diventando però più notturne, suggerendo così che nonostante la disponibilità di fonti di cibo “artificiale”, i mammiferi selvatici cercano di minimizzare le possibilità di incontro con gli umani, spostando la propria attività nelle ore di buio.

 

Al contrario gli animali presenti nelle zone più incontaminate e meno antropizzate, che spesso rappresentano dei rifugi per le specie più sensibili, hanno risposto al ritorno delle persone evitandole e diminuendo la loro attività. Questi risultati documentano una generale tendenza (già evidenziata da altri studi del settore) all’incremento della notturnalità dei mammiferi costretti a far fronte a una forte presenza umana, e i dati indicano che l’effetto è maggiormente marcato per le specie soggette alla caccia.


Fonte: Muse

 

I risultati della ricerca permettono anche di proporre delle misure per la diminuzione del disturbo della fauna selvatica e la prevenzione dei conflitti fra umani e animali selvatici, con delle strategie di protezione della fauna definite sulla base delle specie presenti e dei luoghi interessati . Nelle aree naturali più integre, quelle in cui le infrastrutture e gli spazi urbanizzati sono limitati, gli effetti sulla fauna selvatica della presenza umana possono essere particolarmente rilevanti, e questo riguarda anche attività ricreative come l’escursionismo. Per dare agli animali selvatici lo spazio di cui hanno bisogno, lo studio suggerisce di limitare l’accesso delle persone in alcune zone delle aree protette, di istituire dei corridoi protettivi che favoriscano i loro spostamenti, o ancora di prevedere restrizioni stagionali con la chiusura temporanea di alcuni sentieri durante le stagioni migratorie o riproduttive. I risultati dello studio sono particolarmente significativi se relazionati al notevole aumento dei viaggi e delle attività ricreative registrato a livello globale a partire dalla fine della pandemia. Nelle aree in cui le persone e gli animali si sovrappongono maggiormente invece, come le zone periurbane, la notte è un importante rifugio per i mammiferi selvatici. Gli sforzi potrebbero pertanto concentrarsi sulla riduzione dei conflitti con la fauna selvatica dopo il tramonto, prevedendo ad esempio una migliore gestione dei bidoni della spazzatura, o l'uso di misure di mitigazione sulle strade per ridurre le collisioni con i veicoli.

 

 

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