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Ambiente

Tutti gli scheletri di cui è pieno l’Appennino: l’assalto che non è ancora finito

Mentre il cambiamento climatico e i suoi effetti diventano sempre più evidenti, negli Appennini rimangono gli scheletri di un'idea di sviluppo che aveva un orizzonte brevissimo ma ha contribuito ad arricchire nel breve i protagonisti dell’assalto, facendo credere a chi era nato e cresciuto in montagna che il futuro sarebbe stato del turismo

di
Luca Martinelli
24 luglio | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Un paese dell’Appennino abruzzese. A oltre mille metri sul livello del mare. Meno di mille abitanti. Dentro i confini di un Parco nazionale. Camminando lungo una strada bianca, ai margini del paese, ci imbattiamo nell’ultimo cantiere di palazzine che scende verso la pineta: è abbandonato, quando mancano probabilmente solo le finiture e gli allacci. Le insegne del cantiere non esistono più, però. 

 

Risalendo lungo la stessa strada, oltre i residence che hanno nomi come si ritrovano disseminati dagli anni Settanta e Ottanta lungo tutto il crinale dell’Appennino, i resti di un hotel e di una piscina. La struttura ricettiva è chiusa da oltre vent’anni, la proprietà fallita, mi raccontano in paese. Qualcuno ha acquistato all’asta per poi donare tutto all’amministrazione comunale: a vederlo così, sembra solo un “accollo”, una struttura da bonificare.

 

Cerco un po’ di informazioni in rete e trovo le parole di un ex amministratore, che nei primi anni Settanta aveva preso parte alla fase pionieristica di sviluppo locale: “All’inizio del ’75 erano stati costruiti circa 3.000 appartamenti sommando quelli dei residence, delle ville, degli alberghi e dei condomini. In quegli anni il fermento nel paese era altissimo: camion, bulldozer, escavatori, macchine varie… Sembrava un vero Far West!” scrive.

Per rendere possibile tutto questo sviluppo, oltre un centro storico bello e arroccato, era stata necessaria “la sdemanializzazione dei terreni intorno all’abitato” per riuscire ad “accontentare tutti”. Fu possibile grazie a un intervento dell’onorevole Natali, allora ministro dell’Agricoltura. 

 

Al centro di tutta quell’operazione c’era ovviamente lo sviluppo di una stazione sciistica (“ogni giorno arrivavano richieste di terreni per costruire ville, residence e appartamenti”) che oggi lavora a singhiozzo: quest’inverno non ha praticamente mai nevicato, conferma sul campo ai dati raccolti da Fondazione Cima per l’Appennino meridionale. Intanto il cantiere per il rifacimento delle facciate che copre il lunghissimo residence a bordo pista, seconde case aperte se va bene per pochi giorni all’anno, richiama la profonda iniquità del “bonus 110%”. 

 

Viene da sorridere (ma è un sorriso amaro) a pensare che mentre accadeva tutto questo, il Club di Roma pubblicava “I limiti dello sviluppo”, evidenziando i rischi collegati al sovrasfruttamento delle risorse naturali. Sono passati appena cinquant’anni e quel modello di economia fondato sul consumo di suolo in territori fragili è finito. 

 

Gli effetti dei cambiamenti climatici lo evidenziano ogni anno in modo più profondo. Negli Appennini, qui e ovunque, restano gli scheletri di un’idea di sviluppo che aveva un orizzonte brevissimo ma ha contribuito ad arricchire nel breve i protagonisti dell’assalto (parafrasando il titolo del libro di Marco Albino Ferrari dedicato alle Alpi), facendo credere a chi era nato e cresciuto in montagna che il futuro sarebbe stato del turismo. Una declinazione appenninica di quel capitalismo estrattivo che non guarda mai agli effetti nel medio e lungo periodo sulle comunità locali. 

 

 

 

 

 

 

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