Perché realizzarono una diga di 262 metri, all'epoca la più alta del mondo? Il Grande Vajont, progetto decisamente azzardato per quella fragile vallata
Quella del Vajont è stata la più grande e mortale frana europea. Fu una frana particolare perché oltre alle dimensioni colossali a renderla unica fu la causa che la provocò: l'intervento umano. La diga costruita nella valle e il gigantesco invaso artificiale alterarono gli equilibri geologici di un territorio fragile, con conseguenze devastanti. Con questo secondo contributo cerchiamo di comprendere perché proprio in quella valle secondaria incastonata tra le Prealpi Carniche e Bellunesi venne costruita la diga più alta del mondo
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
La costruzione della diga del Vajont faceva parte di un progetto più complesso che mirava allo sfruttamento di una parte significativa delle acque del bacino del Piave: il “Grande Vajont”. Per comprendere le finalità e le motivazioni di tale disegno dobbiamo ripercorrerne la storia.
Il torrente Vajont scorre nell’omonima vallata friulana. Dopo aver attraversato una forra impressionante, incisa tra verticali pareti calcaree, riversa le sue acque nel Piave presso Longarone. Parte della sua acqua è utilizzata fin dagli anni 1920 da attività industriali locali che la utilizzavano per generare forza motrice. Una prima diga alta una decina di metri assicurava la preziosa risorsa. Presto l’interesse verso quel luogo e quelle acque assunse però tutt’altra dimensione. Nella valle del Vajont furono infatti individuate le caratteristiche ritenute adatte per ospitare una grande diga.
Nell’Italia di quegli anni - siamo nei primi decenni del ventesimo secolo - l’idroelettrico era una gallina dalle uova d’oro. Mancando nel paese giacimenti di carbone e olio minerale, l’energia potenziale delle abbondanti acque scaricate dalle Alpi verso la pianura rappresentava una risorsa abbondante e sfruttabile. Tante società prima locali e poi sempre più ramificate e influenti fecero vere e proprie corse per richiedere le autorizzazione a sfruttare l’acqua delle Alpi e a costruire impianti sempre più grandi, anche grazie a ricche sovvenzioni statali. Produrre energia era ritenuto essenziale per alimentare lo sviluppo industriale ed economico.
Il principio di una diga è semplice. Per imbrigliare l’energia delle acque di montagna è necessario concentrarle in alto nelle valli, senza sprecare nemmeno un metro di quota. La quota - o meglio l’energia potenziale - dell’acqua è il motore dell’idroelettrico. Una tonnellata di acqua stoccata alla testata di una valle è un barile di petrolio che può sprigionare molta energia. Una tonnellata d’acqua che ha raggiunto la pianura è un barile vuoto.
Per sfruttare l’energia potenziale prima che fiumi e torrenti la dissipino muovendosi verso il basso, l’acqua deve cadere in modo controllato. Con la caduta l’energia potenziale si trasforma in energia cinetica, ovvero quella associata alla velocità. Attraverso tunnel e condotte forzate, il fluido vorticoso viene infine diretto verso grandi turbine, la cui rotazione produce potenza elettrica. Le centrali idroelettriche sono la moderna versione degli antichi mulini fluviali. Fu nella prima metà del Ventesimo secolo, quando il paese era assettato di elettricità, che tante vallate alpine videro comparire gli enormi giganti di calcestruzzo, ciascuno accompagnato da un nuovo lago incuneato dove gli impluvi si facevano più stretti e angusti.
Il torrente Vajont ha fin dall’inizio della storia attirato l’attenzione del mondo idroelettrico perché il fiume prima di entrare nel Piave corre in una gola stretta e profonda, il contesto preferito dai costruttori di dighe. Le forre permettono di costruire dighe relativamente strette ma che riescono a bloccare enormi quantità di acqua.
Ecco il perché di tanto interesse per quel piccolo torrente incastrato tra le dolomiti friulane. Il primo progetto per la costruzione di una grande diga sul Vajont risale al 1929, quando venne immaginata una diga alta 130 metri, capace di creare un lago artificiale dal volume di 33 milioni di metri cubi. Nel 1937 il progetto fu aggiornato e la diga subì il primo di numerosi salti verso l’alto: l’altezza prevista toccò i 190 metri. Nel 1948 aumentò ancora, arrivando a 202 metri. L’ultima modifica arrivò poco prima dell’inizio dei lavori, da 202 a 262 metri: la diga più alta del mondo. Il progetto del Grande Vajont, come lo chiamavano gli addetti ai lavori, era venuto alla luce. E in questa corsa verso l’alto, aumentò anche il volume del lago artificiale: da 33 a 150 milioni di metri cubi. Quintuplicato.
Il torrente Vajont ha però una portata media di 2 metri cubi al secondo, duemila litri al secondo. Contando solamente su di essa ci sarebbero voluti tre anni per riempire l’invaso da 150 milioni di metri cubi. Per un torrente di quelle dimensioni la diga più alta del mondo era decisamente esagerata. Difatti l’enorme barriera non fu ideata per trattenere le sole acque del Vajont.
L’intenzione era quella di rendere l’invaso del Vajont il serbatoio d’acqua principale delle Dolomiti orientali. Per farlo fu predisposto che a monte della diga non fosse raccolta la sola acqua del Vajont, ma quella accumulata da tanti altri bacini, posti a decine di chilometri di distanza. Ancor prima di costruire la diga, venne così approntata una fitta rete di condotte per trasportare al Vajont tutta quell’acqua. Ci vorrebbe un articolo a sé per descrivere in dettaglio la moltitudine di condotte e derivazioni che dovevano alimentare il Grande Vajont. Un groviglio di vasi comunicanti, progettati per massimizzare il riempimento del gigantesco serbatoio perdendo la minor quota possibile.
L’acqua arrivava dall’alto Piave, dal torrente Maè, dal Boite e ulteriori captazioni erano in via di realizzazione dai torrenti a est dell’invaso. L’acqua che sarebbe finita nel lago del Vajont era quella raccolta su un bacino imbrifero di 1500 chilometri quadrati. In ultimo, il prezioso liquido avrebbe poi dovuto attraversare un ultimo condotto scavato nelle montagne per raggiungere il piccolo invaso della Val Gallina. Da qui le condotte forzate avrebbero accelerato l’acqua in caduta per quasi 300 metri fino alla più grande centrale elettrica europea dell’epoca: l’impianto idroelettrico di Soverzene.
Per descrivere quest’ultima parte del progetto ho usato il condizionale perché la tragedia del 9 ottobre 1963 rese il Grande Vajont in parte inattuabile. Oggi la centrale continua a ricevere acqua e a produrre energia, ma attraverso uno schema idraulico diverso che bypassa gli impianti del Vajont.
La diga più alta del mondo serviva a creare il più grande serbatoio d’acqua delle Dolomiti. Contando su un volume così imponente, la produzione di elettricità a Soverzene sarebbe stata garantita anche durante i periodi siccitosi, rendendo l’impianto ancora più strategico. Il Vajont doveva diventare anche una riserva idrica per le pianure.
Le cose andarono però diversamente. Prima che il Grande Vajont entrasse in funzione, la frana del Monte Toc precipitò. La vallata fu sconvolta, migliaia di persone furono uccise e il progetto divenne irrealizzabile.
Difficile trovare una conclusione a questa storia. Forse le parole di Mario Rigoni Stern possono aiutarci. Lo scrittore asiaghese ricordava che quando andava a funghi era sempre attento a non esagerare, scegliendo solo quelli sufficienti a condire una pastasciutta. Imporsi quel limite preservava gli equilibri del bosco, permettendogli comunque di godere di quelle delizie. Limitare la raccolta oggi per averla anche domani. La vicenda del Vajont, apparentemente lontana da questa storia, ha in realtà molto a che fare con le parole di Rigoni Stern.
La natura e le sue risorse vanno coltivate, non sfruttate o peggio depredate. Esiste un limite sottile che garantisce la soddisfazione delle nostre necessità e il benessere dei sistemi naturali. Tirare troppo la corda è invece sempre deleterio. Per mangiare qualche fungo in più oggi siamo disposti a non averne domani? Le duemila vittime e l’enorme cicatrice incisa sul Monte Toc sono lì a mostrarci quanto in profondità sia stato infranto quel limite. Il Grande Vajont fu un progetto troppo grandioso per quella fragile vallata.