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Ambiente

Non basta una nevicata

La befana ci ha regalato due giorni di nevicate su Alpi e Appennini. Godiamo della magia offerta dalle cime imbiancate e del freddo, e prepariamoci a rispondere a chi coglierà l'occasione per ribadire tesi negazioniste sui cambiamenti climatici.

di
Sofia Farina
08 gennaio | 12:10
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Dopo una sconfortante chiusura d’anno con persistenti condizioni di föhn e con conseguenti temperature primaverili su tutta la penisola, per la gioia di chi ha potuto godersi delle ore di vero inverno e delle discese su neve fresca (e naturale!), il 2024 si è aperto con delle attesissime nevicate su Alpi e Appennini.

 

A partire da venerdì 5 gennaio, un nucleo di aria polare marittima ha originato una profonda area di bassa pressione sul Mare delle Baleari, che ha portato l’inverno prima sull’arco alpino e poi, stabilizzandosi sul Tirreno settentrionale, anche in Appennino. Più e meno abbondanti nevicate, con picchi oltre i 60cm, sono state registrate sopra nei settori alpini e prealpini dagli 800-1000m, sull’Appennino Emiliano e Laziale-Abruzzese sopra i 1300m.

 

Ma, in Italia, passata la prima fase di gioia, i meteo-appassionati e specialisti del settore che hanno seguito l’arrivo di questa perturbazione dai modelli e dalle immagini satellitari con l’eccitazione di bambini pronti a scartare i regali di natale, sanno che devono prepararsi a rispondere - con ammirevole pazienza - ai commenti di negazionisti climatici e scettici che eleggeranno queste giornate a prova inconfutabile dell’assenza di un cambiamento climatico in corso.

 

Per mostrare sostegno ai colleghi, riportiamo qualche dato sul surriscaldamento delle nostre montagne e sul futuro delle precipitazioni sulle Alpi e sugli Appennini.

 

Partiamo, come sempre, dalla distinzione tra meteorologia e climatologia, argomento di base per capire perché non possiamo fare considerazioni sul clima prendendo ad esempio un evento meteorologico specifico, come una perturbazione di qualche giorno. La climatologia si riferisce a tendenze di media ottenute considerando almeno 30 anni di dati, mentre con la meteorologia studiamo fenomeni atmosferici di scala temporale molto più breve, come ad esempio il singolo evento di grandine o di nevicata. La meteorologia è l’insieme delle condizioni atmosferiche che sperimentiamo direttamente, la climatologia è quello che ci aspettiamo di sperimentare in un certo luogo, in un certo periodo di tempo, sulla base delle condizioni che si sono verificate negli ultimi 30 anni. 

 

Proprio a partire da questo assunto - che a qualcuno potrà risultare banale, ma è di fondamentale importanza - facciamo un passo indietro e guardiamo non all’ultima settimana, ma all’ultimo anno e poi agli ultimi decenni. Con l'arrivo del nuovo anno, siamo collettivamente investiti dal desiderio di fare dei bilanci (e di stilare liste di buoni propositi, o new year resolutions) e a noi scienziati e amanti dei dati i bilanci piacciono. 

 

Partiamo dalla temperatura, che è una variabile più facile da trattare e che ha poi effetti tutto il resto. In Italia, nel 2023, abbiamo registrato temperature più alte di 1.05°C rispetto alla media del periodo 1991-2020 secondo le ultime analisi di ISAC-CNR. L’anomalia è stata più pronunciata durante i mesi estivi e nelle Alpi, che si scaldano molto più rapidamente della media della penisola: tra il periodo preindustriale 1871-1900 e l’ultimo trentennio 1994-2023, la temperatura media annuale a sud delle Alpi è salita di circa 2 °C. Il surriscaldamento ha conseguenze sulle precipitazioni su diversi livelli, dal determinare la fase della precipitazione stessa (neve o pioggia) al modificare i pattern di precipitazione (ovvero quanto spesso piove, con eventi quanto intensi). 

 

Parlare - e anche studiare - delle tendenze e dei cambiamenti a livello di precipitazione è molto più complesso che parlare di temperatura, ma proviamo a identificare insieme alcuni punti fermi, prendendo ad esempio il Trentino Alto Adige (dove ha sede - fisicamente - L’AltraMontagna). Da una collaborazione tra Eurac Research e l’Università di Trento è emerso uno studio sulle precipitazioni nevose nelle province di Trento e Bolzano negli ultimi 40 anni. Dall’analisi e dall'interpretazione dei dati storici in relazione alle fasce di quota e ad altri parametri climatici è emerso come, in generale, i trend delle nevicate dal 1980 al 2020 siano risultati diffusamente negativi in tutto il Trentino Alto Adige, con dei valori di picco di -75%. I dati più negativi si registrano a inizio e fine stagione, mentre nel cuore dell’inverno, tra gennaio e febbraio, e attorno 2.000 metri di quota, le nevicate sono stabili o addirittura in crescita in alcune stazioni di misurazione come quelle dei passi Rolle e Tonale, che registrano un aumento attorno a +15%. Sebbene nei fondovalle la mancanza di neve sia ormai diventata normale, modificando nettamente la percezione dell’inverno da parte degli abitanti, i risultati più preoccupanti agli occhi esperti dei ricercatori sono quelli relativi a note località in quota. Infatti, dai report si leggono diminuzioni di nevicate pari al -26% a San Candido, -21% a Andalo e -29% a Rabbi: luoghi dove l’impatto visivo è meno forte, ma in cui tali diminuzioni hanno conseguenze gravi per le falde acquifere, la disponibilità di acqua e dunque tutte le attività umane che ne hanno bisogno.

 


Trend delle nevicate tra il 1980 e il 2020 in Trentino Alto Adige. Fonte: Eurac Research.

 

 

Facciamo un ultimo passaggio concettuale, riprendendo il tema della complessità di parlare di precipitazioni e non di temperatura, o meglio, della necessità di parlare di entrambe le cose contemporaneamente e della loro relazione. Il bilancio totale delle precipitazioni stagionali nei quarant’anni analizzati è, addirittura, positivo: le precipitazioni sono tendenzialmente aumentate, ma l’hanno fatto sotto forma di pioggia. Questo elemento, che di per sé potrebbe farci aprire un’altra lunga parentesi sul tema della siccità (e magari lo faremo in un prossimo articolo), è solo parzialmente rassicurante. Infatti, il passaggio da neve a pioggia ha conseguenze negative non solo per i proventi generati dagli sport invernali. La presenza di neve è infatti fondamentale per la protezione dei ghiacciai e del terreno, perché ostacolando l’evaporazione e sciogliendosi lentamente in primavera ricostituisce gradualmente le riserve di acqua. La sua assenza aumenta, indirettamente, il rischio siccità.

 

Chiudiamo con uno sguardo al futuro: cosa dobbiamo aspettarci in termini di precipitazioni nevose sulle Alpi? Nel report ”Neve”, sempre di Eurac Research, leggiamo che, complessivamente, nella regione alpina la quantità totale di neve diminuirà in modo significativo in tutti i periodi dell’anno e in particolare in primavera e che, entro la fine del secolo, le condizioni attuali di copertura nevosa potrebbero spostarsi più in alto di 500-1000 metri, cioè nel 2100 le condizioni della neve a 2000 metri corrisponderanno a quelle che si trovano oggi a 1000-1500 metri. Consapevole dell’impatto anche emotivo che possono avere queste informazioni, riporto anche un altro dato: se gli obiettivi di contenimento del riscaldamento globale al di sotto di 2°C verranno raggiunti, lo spostamento in altezza potrebbe ancora essere contenuto entro i 250-500 metri. Facciamo la nostra parte e ascoltiamo la scienza.

 

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