"L’agricoltura di montagna è un'attività umana che accresce la biodiversità anziché diminuirla": una chiacchierata con Vincenzo Venuto
Vincenzo Venuto, classe 1965, è di formazione un biologo, con una lunga esperienza iniziale in Africa, per l’osservazione e lo studio della fauna (in particolare dei pappagalli). Domenica 29 settembre, Venuto sarà ospite di Superpark, la manifestazione del Parco Naturale Adamello Brenta, organizzata assieme a Impact Hub, giunta quest’anno alla quinta edizione
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Vincenzo Venuto, classe 1965, è di formazione un biologo, con una lunga esperienza iniziale in Africa, per l’osservazione e lo studio della fauna (in particolare dei pappagalli). In seguito, scoperto da MT Channel, si è orientato alla divulgazione scientifica e alla realizzazione di programmi televisivi, prima su La7, poi a Rete 4 e attualmente a Canale 5, dove conduce la fortunata trasmissione Melaverde, insieme a Ellen Hidding.
Prossimamente Venuto sarà ospite di Superpark, la manifestazione del Parco Naturale Adamello Brenta, organizzata assieme a Impact Hub, giunta quest’anno alla quinta edizione. Domenica 29 settembre accompagnerà un’escursione a malga Cengledino, sopra Tione, fino al Bait dei Cacciatori, piccola e caratteristica baita in legno immersa tra mughi e rododendri. Nel pomeriggio, alle ore 15.00, interverrà al Salotto degli esperti in occasione dello Judicaria Eco Festival di Tione.
Vediamo brevemente i suoi esordi: cosa faceva in Africa e che Africa ha conosciuto?
La mia primissima Africa è stata la Tanzania, il parco Tarangire, dove sono andato per studiare il pappagallo dal ventre arancio. Sono arrivato laggiù via Nairobi, Kenya, e poi Arusha, due grandi città. Quando mi si è aperto quell’orizzonte mi sono messo a piangere. Elefanti, baobab, acacie, savana a perdita d’occhio. Ho capito che in fondo quella è casa, casa nostra, la culla dell’umanità. E tu senti di appartenerci. La tesi che avevo sviluppato era uno dei primissimi studi sulla bioacustica cioè lo studio delle emissioni acustiche degli esseri viventi. In Italia non era un terreno battuto, tranne un po' a Pavia e a Firenze. La statunitense Cornell University aveva messo in piedi un programma sperimentale. Io sono stato uno dei primi in Italia ad aderire. E ho proseguito con la bioacustica, anche durante il dottorato di ricerca, concentrandomi sui pappagalli. Un campo di studi affascinante, anche se, diciamolo, non è che mi avrebbe aperto le autostrade del mondo del lavoro. Però, attraverso lo studio dei pappagalli, uno poteva porsi degli interrogativi anche su di noi: sul potere della parola, sul ruolo del linguaggio nello sviluppo della specie umana.
Poi ad un certo punto ha scoperto la divulgazione scientifica.
C’è stato uno sliding door, come si dice. Avevo pubblicato un articolo, sempre sui pappagalli, e venne a intervistarmi Macchina del Tempo Channel, un canale divulgativo Mediaset, che poi è passato su Sky. Conobbi il produttore, il quale mi fece parlare di pappagalli e poi mi propose di fare il redattore. Io avevo finito il post-dottorato, e ho detto ok, proviamoci.
C’era della vocazione.
Sì, anche all’università mi piaceva parlare ai ragazzi, introdurli alle discipline scientifiche, alla biologia. Ho ritrovato quella confidenza con la telecamera. Amo il racconto, penso che sia fondamentale per noi uomini, all’uomo piace sentire raccontare delle storie, lo storytelling, come lo si chiama oggi.
Dal suo punto di osservazione, che naturalmente si è allargato con tante trasmissioni televisive e viaggi fra le pieghe del nostro Paese, come vede lo stato dell’ambiente e della biodiversità oggi in Italia?
In verità non male. Mi aspettavo peggio. La biodiversità italiana è la più grande che abbiamo in Europa. L’Italia è ricchissima di biodiversità, ed è facilmente comprensibile perché: è la sua stessa conformazione a determinarla, in Italia abbiamo climi diversi, ambienti diversi, caldo freddo, umido, secco, montagne, colline, pianure, mari diversi, coste sterminate. Questa estrema ricchezza e diversità ambientale è alla base della nostra grandissima biodiversità, che si riflette anche nella varietà dei prodotti della nostra terra, e delle nostre tradizioni enogastronomiche, che ho scoperto attraverso Melaverde. L’altra cosa che ho trovato è una sensibilità ambientale diffusa, ma questa esiste ormai un po’ in tutto il mondo.
Domenica 29, prima con l’escursione organizzata dal Parco Naturale Adamello Brenta per il ciclo Superpark, e poi nel Salotto del pomeriggio a Tione, parleremo anche di agricoltura di montagna. Il suo lavoro l’ha portata a contatto con numerose realtà. Qual è la sua impressione generale?
L’agricoltura di montagna è l’unica attività umana di questo genere che ha accresciuto la biodiversità anziché diminuirla. Perché? Perché l’attività dell’uomo in montagna ha creato ambienti diversi. In montagna non si può fare agricoltura intensiva. Si possono fare muretti, terrazzamenti, orti, frutteti, pascoli. Dove c’è l’uomo la montagna diventa più varia, non è soltanto bosco. Negli altri ambienti l’attività dell’uomo in genere abbatte la biodiversità: pensiamo alle grandi estensioni monocolturali delle pianure, alle distese di terra coltivata ad un unico prodotto. In montagna non è così.
Può l’agricoltura di montagna sostenere il confronto con quella industriale?
Non può proporsi di entrare in concorrenza con l’agricoltura industriale, questo no. Ma può sopravvivere, o meglio, può vivere bene? Sì, e lo può fare in un’unica maniera: puntando su ciò che già ha, sui prodotti che già conosce, sulla loro salubrità, sulla genuinità. Il Trentino in questo è un maestro indiscusso. Pensiamo al mais di Storo, ad esempio. Ma anche dove la produzione è più industriale, come nel caso della mela, c’è una sensibilità accentuata, c’è consapevolezza dei problemi.
Il cambiamento climatico impatta in maniera particolarmente importante alle alte quote. Che cosa possiamo aspettarci per il futuro?
L’umanità ha accelerato per tanto tempo in maniera assurda, adesso cerca di rallentare. Ma in realtà sta ancora correndo. È importantissimo abbattere le emissioni di gas serra in atmosfera ma quello che bisogna fare soprattutto, dal mio punto di vista, è salvaguardare la biodiversità, che non significa salvaguardare il numero di esemplari di questa o quella specie ma le relazioni fra le forme vitali nell’ecosistema. Noi ci siamo evoluti nel massimo della biodiversità, circa 200.000 anni fa. Dopo l’ultima glaciazione, 15.000 anni fa, siamo ‘esplosi’ con l’agricoltura. Ma sempre immersi nel massimo della biodiversità disponibile. È lei che gestisce tutto questo. Se non la conserviamo siamo destinati ad estinguerci.
Parliamo del ruolo della divulgazione scientifica nell’orientare le persone verso scelte e comportamenti positivi. Come fare, che linguaggio adoperare?
Se vado in tv e inizio a dire “cambiamento climatico” ormai allo spettatore si chiudono le orecchie. Secondo me è determinante come lo racconti e cosa. Se riesci a raccontare in modo semplice, con un linguaggio accessibile a tutti, senza tecnicismi, usando anche delle storie, che come dicevo alle persone piacciono molto, allora riesci a far nascere una coscienza. Ma, lo ripeto, in generale la coscienza c’è già, ormai, lo sanno anche i bambini che il cambiamento climatico è in corso, non pensano siano invenzioni dei Verdi. Bisogna sforzarsi di raccontare le cose bene, proporre dei ragionamenti comprensibili. Ad esempio: nel mondo siamo 8 miliardi, siamo tantissimi, in due secoli siamo cresciuti ad una velocità impressionante. Come si fa a gestire tutte queste persone? Come si fa a controllare la crescita demografica? Bisognerebbe fare studiare le bambine nel Terzo Mondo. Se tu guardi il mondo vedi che è nei paesi poveri che c’è la crescita più forte. In quelli più sviluppati la crescita si è fermata. Facciamo studiare le donne, diamo loro opportunità di lavoro. Allora forse le cose potranno cambiare.
Info su Superpark qui: https://www.pnab.it/superpark-visioni-dautore/