L'impatto della popolazione umana sulla biosfera si può pesare con una bilancia
Immaginate di avere a disposizione una gigantesca bilancia con il quale fosse possibile pesare tutti i mammiferi del pianeta terra, compresi voi stessi e tutti gli altri componenti della nostra specie. Quale risultato otterreste?
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Se fosse possibile pesare tutti i mammiferi del pianeta terra, compresi noi stessi e tutti gli altri componenti della nostra specie, scopriremmo che delle circa 1100 milioni di tonnellate risultanti, oltre il 94% è costituito da noi umani (36%) e dai nostri animali domestici (58%, soprattutto vacche e maiali). Tutti i mammiferi selvatici messi assieme rappresentano soltanto poco più del 5% del totale, e questa esigua proporzione comprende tutti gli individui di tutte le specie, dalle più piccole, come il toporagno d’acqua, alle più pesanti, come l’elefante africano e la balenottera azzurra. Se faceste scendere dalla bilancia i mammiferi e ci faceste salire gli uccelli, scoprireste che più del 70% della loro massa è costituito da polli d’allevamento. Questi dati ci dimostrano quanto profondamente la nostra specie abbia stravolto gli ecosistemi del pianeta a discapito delle altre. Per di più, la numerosità umana è in aumento: soltanto nel 2023 è cresciuta di 73 milioni, superando la strabiliante cifra di 8 miliardi. Eppure, nelle nazioni e regioni in cui la popolazione umana comincia a stabilizzarsi o è in leggero calo le preoccupazioni di stampo economico prevalgono sulle considerazioni di carattere ambientale, e il calo demografico viene dipinto a tinte fosche.
Tuttavia, anche i danni che l’umanità sta infliggendo agli ecosistemi costano caro: la banca mondiale stima che il deterioramento degli ecosistemi costerà 2700 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 e il World Economic Forum 2024 ha individuato nella crisi della biodiversità e in quella climatica i due principali rischi per l’economia mondiale. Misurando la quantità di risorse naturali (carne, pesce, legno, frutta e verdura, cotone, suolo) che in media ogni essere umano utilizza si può stimare la superficie necessaria alla loro produzione e all’assorbimento dei corrispettivi scarti. Questa impronta ecologica è risultata di 2,6 ettari per persona nel 2022, che confrontata con la bio-capacità del pianeta, equivalente a 1,5 ettari pro-capite, genera un saldo pesantemente negativo. In pratica stiamo estraendo dal nostro “capitale naturale” molto più di quanto esso non riesca a produrre, procedendo in costante debito ecologico. Sebbene vi sia una forte disparità fra nazioni ad alto e basso reddito, e anche all’interno dei singoli paesi, con l’1% più ricco delle persone sproporzionalmente molto più impattante, la numerosità stessa della popolazione umana è un fattore essenziale.
È ben nota in ecologia una legge scientifica per la quale le specie di piccole dimensioni tendono ad essere più numerose di quelle di grandi dimensioni , ma noi umani siamo riusciti a forzare le regole raggiungendo una numerosità sbalorditiva per un mammifero di grande stazza. Mentre la nostra popolazione raddoppiava in soli 50 anni, quella degli altri animali vertebrati calava del 70%. Abbiamo alterato significativamente almeno tre quarti della superficie terrestre depauperando la biodiversità e semplificando gli ecosistemi al punto da metterne a repentaglio la funzionalità e i processi che sorreggono anche le nostre società ed economie, come l’impollinazione, il filtraggio dell’acqua, lo stoccaggio del carbonio e la stabilità del clima.
Se vogliamo davvero raggiungere un maggiore equilibrio con le altre componenti dei sistemi bio-geo-chimici terrestri ed evitare di proseguire in una traiettoria auto-distruttiva dovremmo affrontare con positività la sfida che il calo demografico pone al nostro sistema economico. Le stime dell’ONU, infatti, indicano che non soltanto l’Italia, ma anche decine di altri paesi avranno una popolazione in calo nel 2050. Se c’è margine per la speranza esso giace proprio nel fatto che una diminuzione del tasso di crescita demografico globale e anche un decremento della popolazione in alcune aree del mondo ci aiuterà a ridurre la nostra impronta ecologica.
Essere meno numerosi e più concentrati nelle città ci consentirà inoltre di lasciare più spazio alle altre specie e ai loro habitat. Se i boschi coprono oltre il 35% della nostra penisola e sono in espansione in tutta Europa lo dobbiamo proprio al de-popolamento delle aree interne e alla migrazione verso le città iniziata nel secondo dopoguerra. Lo stile di vita delle popolazioni rurali che praticavano agricoltura e pastorizia di sussistenza non era così armonioso e rispettoso della natura come si possa pensare, in linea con uno stereotipo bucolico di grande successo, ma aveva in realtà contribuito a deforestare e de-faunare ampiamente il territorio. Specie animali che ora riteniamo comunissime, come il cervo, il capriolo, il picchio nero o comunque diffusi come l’aquila reale, erano scomparse o rarefatte nei primi decenni del secolo scorso e sono tornate prontamente ad espandersi. Se nel 1950 rimanevano appena un centinaio di lupi in tutta l’Italia, il censimento del 2021 ne ha stimati oltre tremila. Lo spopolamento di alcune aree del vecchio continente ci fornisce una storica opportunità di rimediare agli errori del passato e di ri-naturalizzare ampie porzioni di territorio sia attraverso progetti mirati di ripristino ambientale, sia favorendo gli spontanei processi di rewilding, con enormi potenziali benefici per il contrasto ai cambiamenti climatici e alla perdita di biodiversità, nonché in termini di servizi ecosistemici (cioè i benefici sociali ed economici che le società umane traggono dalla natura). Limitare l’impronta umana sul pianeta significa anche tenere sotto controllo la nostra demografia cogliendo anche le opportunità e i benefici che possono derivare da una diminuzione della popolazione umana, considerando l’altra faccia della medaglia.