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Ambiente

Il "vino della neve" di Nicola Biasi sfida l'altitudine con i filari a 1.000 metri di quota. Una produzione diventata in poco tempo iconica

La vite, sulle Dolomiti, è uno dei più importanti indicatori ambientali. Sancisce limiti, scandisce il territorio. E’ la pianta che meglio interpreta la fatica dei montanari

di
Nereo Pederzolli e l'AltraEnogastronomia
17 marzo | 15:00

In alto, talmente alto che più su non vive. La vite, sulle Dolomiti, è uno dei più importanti indicatori ambientali. Sancisce limiti, scandisce il territorio. Senza tentennamenti. E’ la pianta che meglio interpreta la fatica dei montanari. Gente che dalla loro vigna hanno sempre ricavato sollievo, non solo economico. Semplice, franco, buono come solo le cose schiette sanno esserlo. Qualcuno ha definito il vino dei montanari una sorta di "scandalo alcolico".

 

Di sicuro fare vino in quota non è per tutti. Caparbietà, esperienza e fatica. Tra filari di campi vitati strappati alla montagna, pendii ripidi, talvolta a rischio di equilibrio, ma splendidi crinali dove la vite alligna con grazia, non solo estetica. Colture di montagna che sono contemporaneamente barriere e cerniere, che rifiutano o rilanciano, selezionando secondo natura solo i riscontri di maggior significato.

 

Viticoltura in equilibrio tra consuetudini del passato e sfide agronomiche future. Piantando in alta quota varietà di viti decisamente resistenti. Non solo al clima, pure a patogeni che aggrediscono la vitis vinifera.

 

Il progetto più inedito è quello realizzato da Nicola Biasi, un giovane enologo trentino, che ha piantato una tipologia di viti Piwi, sigla che indica quelle in grado di resistere spontaneamente alle principali malattie fungine della vite. Vigneto in alta Val di Non, filari che sfidano l’altitudine, quasi mille metri di quota, sul versante che da Coredo guarda verso la Predaia, piccola area sciistica. La varietà è Johanniter, ibrido in cui si intrecciano geni di Riesling e Pinot Grigio, vite assolutamente ecocompatibile.

 

La vendemmia produce un vino bianco decisamente originale anche nel nome: Vin de la Neu, cioè la definizione di "vino della neve" nel dialetto della Val di Non. I riscontri sono stati a dir poco esplosivi. Questo vino è subito diventato iconico, imitato da vignaioli montanari di mezzo mondo, vino premiato da tutta la critica enologica.

 

Testimonianza preziosa per un premio all’amenità paesaggistica, alla caparbietà vitivinicola. Senza soste. Un vigneto collinare infatti non sopporta la meccanizzazione. Quella che sprona a sfidare il consueto e guarda al domani, interpretando cambiamenti climatici e precise strategie di ricerca scientifica.

 

Viti resistenti per vini altrettanto di montagna sono al centro di tante altre sperimentazioni vitivinicole alpine. Sfruttano le peculiarità del territorio, campi spesso microscopici – la frammentazione fondiaria è caratteristica portante di tutto il sistema agricolo trentino – e comunque troppo ripido. Forme d’allevamento – la pergola non a caso identifica la coltura della vite nella zona dolomitica – per profittare meglio l’esposizione delle piante al sole, per recuperare ogni minuscolo appezzamento, terreni sorretti da mura di sassi a secco, tra l’azzurro del cielo alpino e quello di tanti specchi d’acqua, torrenti o ruscelli che solcano le vallate.

 

Vigneti che sembrano azzardati. Dove si deve operare ancora con la manualità, gesti e metodi agricoli che ben poco concedono al risparmio: quasi 600 ore l’anno, per accudire un ettaro di simili filari; altro che part-time o impegno saltuario di facile pianificazione. In vigna ci si vive. Quotidianamente, dalla potatura invernale fino al rito della vendemmia. Ogni anno, di anno in anno, apparentemente sempre uguale eppur sicuramente diversa. Lo garantisce la variabilità delle zone vitate, diverse, affascinanti, ognuna con specifiche peculiarità, inconfondibili.

 

La montagna trentina ha ulteriori legami con la produzione di spumanti, quelli ottenuti con il rigoroso, classico metodo stile champagne, vale a dire la lenta rifermentazione del vino in bottiglia. Per avere bollicine suadenti. "Quando la montagna diventa perlage" è un motto promozionale del TrentoDoc, Istituto di tutela che raggruppa una settantina di maison, con i marchi tra i più rinomati a livello internazionale.

 

Spumanti briosi e altri vini con l’indole della verticalità dolomitica. Produzioni che attingono conoscenza enologica nella ricerca più avanzata, consolidata nei 150 anni di storia della Scuola agraria di San Michele all’Adige, centro di ricerca dedicato ad Edmund Mach, pioniere dell’enologia moderna.

 

I vini prodotti in alta quota hanno comunque qualcosa di speciale. Che li rendono inimitabili e dunque ricercati. Bere vino dolomitico, atto eno-sostenibile. A proposito: Dolomiti è l’Igt, indicazione geografica tipica, volutamente usata dai vignaioli montanari per distinguere i loro vini dalla Doc Trentino. Ulteriore omaggio alla montagna. E ai "suoi" vini.

l'autore
Nereo Pederzolli e l'AltraEnogastronomia

Nato a Stravino, micro-borgo rurale in Valle dei Laghi, tra Trento, le Dolomiti di Brenta e il Garda. Per 36 anni inviato speciale Rai in programmi e rubriche agroalimentari, filmmaker, da oltre 30 anni degusta vini per la guida del Gambero Rosso e ha pubblicato numerosi testi di cultura enogastronomica. È editorialista e colonna del quotidiano online ilDolomiti.it e per l'AltraMontagna racconterà di enogastronomia 'eroica', di Terre Alte ed alte quote, di buon vino e buon mangiare.

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