Gli ultimi abeti rossi d’Appennino: rarità genetiche minacciate dall’isolamento, dal bostrico e dall’ibridazione con i rimboschimenti artificiali
Un recente studio, condotto dal Cnr insieme all'Università svedese di Uppsala, ha messo in luce l'unicità genetica degli ultimi abeti rossi d'Appennino, una popolazione relitta che vegeta nelle montagne pistoiesi, all'interno della Riserva di Campolino. Poche decine di ettari di pecceta importantissimi dal punto di vista conservazionistico, che tuttavia sono minacciati da tre fattori concomitanti
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Se vi venisse chiesto di indicare un albero simbolico delle Alpi, ne sono sicuro, molti di voi risponderebbero “l’abete!” (alcuni direbbero “il pino”, lo so, ma sempre pensando alle chiome coniche e sempreverdi dell’abete rosso o dell’abete bianco).
L’abete rosso, in particolare, è un vero e proprio simbolo alpino: compare in stemmi, in loghi, in illustrazioni ed è parte integrante dell’immaginario collettivo legato alla più nota catena montuosa del mondo, nonostante la tempesta Vaia e la diffusione del bostrico abbiano un po’ minato l’immagine di questa conifera iconica e fondamentale anche per l’economia di quelle valli.
In molti non sanno però che il peccio - così viene chiamato comunemente l’abete rosso - si trova naturalmente anche in Appennino: non solo nei rimboschimenti storici, ma in due piccoli fazzoletti di bosco che sono tra i nuclei naturali più meridionali dell’intero areale della specie. Si tratta di quel che resta di rifugi in cui la specie è resistita dopo l’ultima glaciazione, popolazioni una volta anche estese che si sono contratte fino alle poche decine di ettari attualmente occupati dalla specie nell'Appennino pistoiese e parmense.
Il nucleo più consistente di abete rosso appenninico si trova sulla montagna pistoiese, all’interno della Riserva di Campolino. Questa popolazione rara e preziosissima, oggi gestita dal Reparto Carabinieri Biodiversità di Pistoia, è stata protagonista di un recente studio del Cnr insieme all’Università svedese di Uppsala, dal quale sono emerse informazioni da un lato estremamente interessanti, dall’altro preoccupanti, sul suo futuro.
Come dimostra questa popolazione di abete rosso, le specie arboree che osserviamo sulle nostre montagne hanno una storia evolutiva assai complessa, fatta di periodi di contrazione e altri di espansione legati principalmente al clima. Nel corso del Quaternario, durante le varie glaciazioni e i periodi interglaciali, molte specie sono scomparse, altre invece si sono affermate ed espanse. In tanti casi è avvenuta anche un’ibridazione tra alcune di esse: un fenomeno chiave per l’evoluzione di molte delle specie oggi presenti, che lo studio ha indagato concentrandosi proprio su due abeti dominati negli ecosistemi forestali boreali: Picea abies, il nostro abete rosso, e Picea obovata, il peccio siberiano. Per indagare la storia evolutiva di queste due specie, che nel tempo si sono spesso ibridate tra loro, i ricercatori hanno analizzato 55 popolazioni di tutto l'areale, comprese quelle marginali e, proprio per questo, particolarmente interessanti dal punto di vista genetico.
La popolazione autoctona di abete rosso più marginale tra quelle indagate è stata proprio quella di Campolino, che nei risultati della ricerca è emersa come una delle popolazioni più peculiari d’Europa, poiché fortemente divergente da tutte le altre.
Ma a fronte di questa diversità così caratteristica e preziosa, la popolazione di Campolino appare oggi in pericolo, come spiega a L’AltraMontagna Andrea Piotti, genetista del Cnr e coautore della ricerca: “Questa popolazione così particolare, unica dal punto di vista genetico, è minacciata da tre fattori concomitanti. Il primo è dato dalla sua marginalità, geografica ed ecologica: vive infatti isolata, in condizioni climatiche al limite per la specie, e se appare molto diversa da tutte le altre, la variabilità genetica al suo interno è assai scarsa. Il secondo è di tipo fitosanitario, dovuto al bostrico (il coleottero che sta provocando numerosi danni alle peccete alpine). Negli ultimi anni, a causa di diversi eventi meteorologici e dell’andamento climatico, il coleottero ha pesantemente attaccato i rimboschimenti artificiali storici posti nelle vicinanze della Riserva e inizia ad affacciarsi pericolosamente anche al suo interno. Il terzo, legato proprio ai rimboschimenti appena citati, è genetico: il polline presente nell’aria derivante dalle piantagioni artificiali sta infatti inquinando geneticamente le piante autoctone e in alcune aree della Riserva abbiamo trovato alberi ibridi. I rimboschimenti storici erano infatti realizzati con provenienze alpine, non locali, che potrebbero nel lungo periodo soppiantare questo patrimonio genetico unico presente in Appennino”.
L’unicità del patrimonio genetico del peccio d’appennino, è bene ricordarlo, anche se riguarda la stessa specie Picea abies è da considerarsi un’espressione della “biodiversità”, universalmente riconosciuta come meritevole di attenzione e tutela: “Il patrimonio genetico delle popolazioni di abete rosso appenninico è unico”, conclude Piotti, “una volta perso non si ricreerebbe mai più: per questo è importante e urgente proteggerlo”.
Ma come fare? Il bostrico, in questo contesto, potrebbe dare una mano, creando una discontinuità tra la popolazione naturale e quella artificiale, a patto però che non colpisca pesantemente anche le piante della Riserva, che sono perciò da proteggere con particolari sforzi e metodi di lotta fitosanitaria, come stanno cercando di fare i Carabinieri del Reparto Biodiversità di Pistoia attraverso importanti collaborazioni scientifiche. Senza dubbio, un’altra azione utile potrebbe essere quella di allontanare le due popolazioni attraverso attività selvicolturali, favorendo una rapida rinaturalizzazione dell’area circostante la Riserva ed eliminando progressivamente le potenziali fonti di inquinamento genetico. Per quanto riguarda invece la marginalità c’è poco da fare, se non conservare il patrimonio genetico della popolazione autoctona attraverso i semi e piantagioni realizzate con questo scopo.
Chissà che questi “abeti rossi meridionali”, evoluti con un clima molto differente da quello alpino, conservino nel loro DNA una strategia per rispondere alla sempre più evidente crisi dei “fratelli nordici” nel contesto del riscaldamento globale…
Anche a questo, ma non solo per questo, serve conservare la biodiversità.