Diga del Vanoi: scelte politiche in una partita ancora aperta e conflitto tra pianura e montagna
Tra le opere proposte dal Veneto per contrastare la siccità c'è anche una grande diga sul torrente Vanoi, in provincia di Belluno. Il bacino artificiale generato dallo sbarramento servirebbe ad alimentare il fiume Brenta durante i periodi in cui manca l’acqua, soprattutto in estate. Gli impatti ambientali dell'opera, tuttavia, spaventano gli abitanti della zona, che da decenni contestano il progetto
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Il 9 ottobre 1963 è data storica che non deve essere dimenticata, e ciò vale non solo per gli abitanti di Longarone e dintorni, ma è un monito per l’intera umanità. 1910 vittime, famiglie distrutte, territorio devastato. I sintomi e gli allarmi non sono mancati, ma la legge dei profitti e la presunzione che il genere umano possa dominare la Natura, hanno prevalso sulle fondate preoccupazioni, come nei vari processi successivi è chiaramente emerso.
La gigantesca frana del Monte Tòc (toponimo quanto mai evocativo!) si è riversata sul bacino il cui livello era stato spinto verso il massimo invaso. L’instabilità geologica del sito non era una novità assoluta. Certo, era difficile prevedere catastrofi di simili proporzioni, ma questo evento dovrebbe pur insegnare che non è il caso di sottovalutare gli effetti secondari derivanti dalle infiltrazioni di acqua nelle rocce più o meno fratturate e la presenza di masse detritiche ancora incoerenti.
A seguito delle celebrazioni del 60° anniversario, si leggeva testualmente sulla stampa (non solo locale) che il presidente Zaia affermava che mai più si sarebbero dovuti correre rischi simili. Con sorpresa, che potrebbe rasentare la spudoratezza, il giorno seguente si esprime in termini favorevoli alla costruzione della diga sul torrente Vanoi, affluente di destra del Cismon. Un’idea progettuale vecchia di almeno un ventennio che veniva riesumata nella convinzione che per combattere la siccità che ha afflitto estese aree di pianura, la costruzione di bacini montani da adibire a riserva idrica potesse rappresentare una valida soluzione.
L’uscita ha generato sconcerto nelle comunità locali che non erano informate del fatto che la progettazione, curata dal Consorzio di Bonifica del Brenta, fosse già in uno stadio avanzato. Sorpresa anche da parte della Provincia Autonoma di Trento poiché se la diga sarà costruita in comune di Lamon, presso il confine con il comune trentino di Canal San Bovo, la quasi totalità del bacino si estenderà nel suo territorio.
Sulla base della normativa vigente, e in particolare del decreto riguardante l’emergenza idrica (siccità) dello scorso anno, vi è ampia discrezionalità per assumere decisioni di natura commissariale (il modello del ponte Morandi ha fatto scuola e lo si è verificato anche per eventi come i mondiali di sci e le Olimpiadi a Cortina). Addirittura, alla stessa Provincia Autonoma è stato negato l’accesso agli atti. Solo in questi ultimi giorni (28 marzo) la stampa ha dato notizia che il comune di Lamon e la Provincia di Belluno potranno consultare la documentazione finora prodotta ed entrare, quindi, nel merito di scelte di natura tecnica.
Se le comunità della montagna bellunese si sono in larghissima maggioranza espresse per un no deciso alla costruzione della diga, va segnalato che quelle dei comuni di pianura hanno espresso voto favorevole. Una sorta di scontro tra pianura e montagna che non dovrebbe avere ragion d’essere, posto che a essere penalizzati, alla fine, saranno sempre i più deboli, per numeri (di abitanti) e per peso politico. Stupisce, ad esempio, che non siano state seriamente prese in considerazione ipotesi alternative per poter soddisfare la comprensibile esigenza di irrigare i campi nei periodi di scarsa piovosità. Si potrebbero, a esempio, costruire bacini anche in pianura, in zone già malmesse, senza incidere su già molto delicati ecosistemi montani. In particolare, sarebbe stato necessario investire da tempo in tecnologie e tecniche irrigue fondate sul risparmio di acqua. Ma vi sono anche altri esempi che potrebbero evitare il forte impatto derivante dalla costruzione di dighe e nuovi invasi che, per ben che vada, alterano l’equilibrio idrogeologico, interrompono le connessioni ecologiche, senza contare l’impatto paesaggistico e i danni derivanti dalle opere accessorie e dalla costruzione del cantiere che si traducono in nuova antropizzazione, nuovo consumo di suolo.
Si dirà: ma cosa c’entra il Vajont? Oppure: nell’area interessata dal progetto non sono segnalate emergenze naturalistiche di straordinario valore. Effettuato il sopralluogo, anche un normale escursionista potrà constatare come la complessità orografica e geologica, con stratificazioni, pendii detritici, nicchie e accumuli franosi (la stessa vecchia strada della Val Cortella ne è fedele testimonianza) è tale da sconsigliare (meglio: escludere) ipotesi progettuali che, purtroppo, ricordano troppo da vicino la tragedia del Vajont. Si argomentava che avrebbe dovuto servire da lezione imperitura. Non sembra affatto così, posto che perfino nello stesso bacino del Vajont sono state avanzate ipotesi di parziale ripristino dell’invaso. Certo, è improbabile si possano ripetere catastrofi di analoghe proporzioni, ma è giusto pensare alle preoccupazioni delle famiglie che vivono in aree adiacenti, a valle dell’invaso? Che non meritino alcuna attenzione? Alla fine, è un ulteriore esempio di come si pretenda di intervenire in aree considerate deboli/marginali (quindi con scarsa capacità di opposizione) secondo logiche che vanno definite senza incertezze come insostenibili e legate a schemi che si ritenevano superati.
Saranno sufficienti questi tre dati numerici per richiamare all’attenzione l’enorme impatto che la costruzione della diga avrebbe sull’intero comprensorio: altezza della diga pari a 116 metri, volume dell’invaso pari a 33 milioni di metri cubi e superficie del bacino pari circa 120 ettari.