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Ambiente

Cosa c’entrano gli escrementi di balena con i ghiacciai alpini?

Il ruolo delle grandi balene negli ecosistemi marini è talmente importante da influenzare anche il clima dell’intero pianeta, con conseguenze dalle ricadute inattese, e una parte cruciale è giocata proprio dai loro escrementi

di
Marco Salvatori
02 marzo | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Quando nel 1497 l’esploratore italiano Giovanni Caboto attraccò sulla penisola canadese che poi avrebbe ribattezzato come ‘Terra nova’, riportò sul suo diario di bordo che il mare era talmente ricco di pesci che era possibile pescarli non soltanto con le reti, ma più semplicemente immergendo dei secchi nell’acqua. Da allora però gli oceani del pianeta sono stati progressivamente svuotati dalla sovra-pesca, che non ha risparmiato nemmeno i più grandi animali del pianeta: le balene. Dal varo della prima grande baleniera meccanizzata da parte del norvegese Christen Christensen nel 1903, infatti, il numero di grandi balene che solcano i mari è diminuito drasticamente. Ad oggi, nonostante l’aumentata tutela di queste specie (ad esempio, in Unione Europea tutti i cetacei sono protetti dalla Direttiva Habitat) i loro numeri rimangono fino a 20 volte inferiori rispetto all’epoca pre-industriale.

 

Ma perché mai parlare di conservazione delle balene in un quotidiano dedicato alle montagne? Il ruolo delle grandi balene negli ecosistemi marini è talmente importante da influenzare anche il clima dell’intero pianeta, con conseguenze dalle ricadute inattese, e una parte cruciale è giocata proprio dai loro escrementi. Questi giganti del mare, infatti, sono in grado di trasportare importanti elementi minerali in verticale lungo la colonna d’acqua, defecando in prossimità della superficie durante la respirazione: si stima che, soltanto negli oceani meridionali, i capodogli, cacciatori di calamari nelle acque profonde, rilascino poi nelle acque superficiali circa 50 tonnellate di ferro all’anno. In superficie vive il fitoplancton (la componente fotosintetizzante dei microorganismi acquatici), che ha bisogno di questi rari elementi per crescere, riprodursi e compiere la fotosintesi, processo durante il quale cattura il carbonio dall’atmosfera e lo fissa nel proprio corpo. Si tratta di un processo fondamentale per l’intera biosfera, esseri umani compresi, visto che il fitoplancton marino è responsabile globalmente di circa la metà della fissazione organica di carbonio per fotosintesi e della produzione di più del 50% dell’ossigeno. Una parte di questo carbonio viene poi sequestrato nelle profondità dell’oceano tramite caduta gravitazionale dei microorganismi morti, risultando in uno stoccaggio netto. Questo complesso meccanismo di immagazzinamento di carbonio dall’atmosfera ai fondali oceanici, mediato dai cetacei, è stato ribattezzato dai biologici marini whale pump. Il sequestro di carbonio in profondità è ulteriormente alimentato dalle balene anche per via diretta: quando il loro lungo ciclo vitale giunge al termine, le carcasse delle balene morte sprofondano, trasferendo così negli abissi il carbonio di cui sono composti i loro tessuti corporei. Per animali che pesano diverse decine di tonnellate si tratta di quantità non trascurabili. Come se non bastasse, molte specie di grandi balene (come le megattere) sono migratrici: a fine estate si spostano dalle fredde ma nutrienti acque delle zone artiche dove si alimentano alle acque calde, benché povere di nutrienti, dei tropici dove si riproducono, favorendo uno scambio orizzontale tra mari a diverse concentrazioni di nutrienti e promuovendo così la fotosintesi.

 

 

Vista la complessità del fenomeno e delle interrelazioni fra gli organismi marini, quantificare la reale capacità dei grandi cetacei di rimuovere carbonio dall’atmosfera è però un’operazione estremamente delicata, e di certo non significa che proteggere le balene basti per continuare ad utilizzare i combustibili fossili. La scala a cui queste specie possono diventare un efficace strumento di lotta ai cambiamenti climatici è ancora dibattuta nella comunità scientifica, ma la protezione delle balene rimane una delle numerose nature-based solutions per il contrasto ai cambiamenti climatici. Due terzi dei paesi firmatari dell’accordo sul clima di Parigi si sono infatti impegnati ad utilizzare soluzioni basate sulla natura per contrastare il riscaldamento globale, ormai evidente anche dalla riduzione dei ghiacciai delle nostre Alpi, ed una parte di queste strategie riguarda il cosiddetto “carbonio blu”, cioè il carbonio stoccato dagli ecosistemi marini e costieri.

 

Sebbene la tutela dei grandi cetacei sia cresciuta negli ultimi decenni, rimangono moltissime minacce che rischiano di relegare questa tutela alla sola carta, fra cui la pesca accidentale, la presenza di reti fantasma (reti da pesca abbandonate o perse), la collisione con le navi, e il rumore subacqueo, dovuto sia al traffico marittimo che alle trivellazioni petrolifere. Contrastare queste minacce ci assicurerebbe un ecosistema marino più integro, aumentando il numero di grandi balene e la loro capacità di contribuire alla rimozione del carbonio in eccesso che continuiamo ad emettere in atmosfera. Se non altro, la complessità del ruolo ecologico dei grandi cetacei ci dimostra come, anche al di là della nostra immaginazione, tutto sia interconnesso, persino due componenti così distanti dei sistemi planetari come le feci di balena e i ghiacciai.

 

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