Camminando nei paesaggi dell'abbandono: “Boschi che non c’erano”, “prati che non ci sono più”. Tra inquietudini e domande
Una passeggiata sulle Alpi Carniche, lungo un versante un tempo sfalciato dal fondovalle fin quasi alla cresta della montagna, oggi in fase di abbandono e di riconquista da parte del bosco. Sensazioni, inquietudini e domande, che occorrerebbe iniziare a porsi più spesso
Camminare nel bosco, si sa, dona buone sensazioni. “Pace, relax, riconnessione con la natura” offrono, senza troppo esagerare, alcune guide che promuovono escursioni in foresta.
Ma è sempre così? Oppure il bosco, se unito alla conoscenza della sua storia, in alcune situazioni può generare un senso di malessere, di agitazione, di inquietudine?
Alcuni giorni fa ho accompagnato alcuni amici sulle Alpi Carniche. Ho scelto non a caso un sentiero particolare, che si snoda lungo un versante ripido fino a raggiungere una malga. Volevo mostrare loro il “bosco che non c’era”, o forse “il prato che non c’è più”. Volevo riflettere sulla condizione “di mezzo” che vivono molti versanti di Alpi e Appennini: non più coltivati, pascolati o sfalciati a causa dell’abbandono, ma al tempo stesso non ancora un bosco chiuso, un bosco… bosco.
È impressionante, affascinante e al tempo stesso straniante camminare in mezzo ad abeti rossi, larici, betulle, pini mughi e silvestri, saliconi e pioppi tremoli sapendo che solo cinquanta, sessant’anni fa quegli alberi non c’erano. Impressiona perché a vista sembrerebbero piante di maggiore età, soprattutto le conifere. Colpisce la loro distribuzione, talvolta fatta da gruppetti compatti e timorosi, in altri casi da singoli individui spavaldi, con la schiena ben dritta. In queste situazioni mi viene sempre da pensare all’immagine di un battaglione sbucato da una trincea per conquistare lo spazio nemico, sono portato a paragonare alberi a uomini, anche se la natura non funziona affatto con i nostri stessi parametri. Non c’è un generale a chiamare la carica, ci sono solo il tempo che passa e le mutate condizioni gestionali di un luogo. Condizioni economiche, politiche e sociali da un lato, puramente ecologiche dall’altro.
C’è una buona parte di casualità nella distribuzione nello spazio che ogni albero e ogni singola specie si è ritagliata lungo questa manciata di decenni. Il seme è arrivato per una folata di vento, o per l’azione di uccelli e altri animali, ed è caduto proprio lì, dove uno su mille ha attecchito sgomitando con l’erba e vincendo la prima delle tante sfide della competizione che attendono la giovane piantina. C’è anche una parte più “razionale”, dovuta alle caratteristiche delle singole specie vegetali (favorite quelle “pioniere”, che necessitano di molta luce), ma anche del suolo, del bosco già presente nelle vicinanze, degli animali dell’area e delle loro abitudini consolidate nel corso dell’evoluzione.
Fatto sta che decine, centinaia, forse migliaia di alberi hanno iniziato a occupare un intero versante abbandonato, uno spazio lasciato libero. Uno spazio un tempo bosco, poi occupato dalla nostra specie probabilmente per secoli, ora nuovamente a disposizione della selva.
C’è chi la chiama “invasione del bosco”, con una visione più antropocentrica; c’è chi parla di “riconquista”, mostrandosi più “dalla parte delle piante”; c’è chi invece riflette sul termine “rinselvatichimento”, ponendo l’accento sull’assenza di una coltivazione di questa nuova “opportunità” che la natura ci mette a disposizione; c’è chi, con più rigore scientifico, parla semplicemente di “successione”.
È stato strano camminare in quel caos di alberi sparsi, in quel disordine che, in realtà, non è altro che un ordine ecologico, un ordine a noi poco comprensibile. È stato strano perché, conoscendo la storia di quel luogo, un tempo “pulito”, sfalciato dal fondovalle fin quasi alla cresta del monte, non riuscivamo a separare il fascino della successione, la bellezza e la forza degli alberi pionieri, dalle voci di schiere di uomini e donne che ci parevano fuoriuscire da ogni singolo ciuffo d’erba.
Litri e litri di sudore, migliaia di calli nelle mani, il ruotare ritmato delle schiene e dei polsi, l’odore pungente e buono di erba tagliata, il concerto di un’orchestra fatta da milioni di falci, dal suono secco e appagante. Fuori da queste visioni, il profondo silenzio che ovattava il versante, interrotto solo dai nostri passi, dal gracchiare dei corvi e dalla brezza, che muoveva le fronde leggere dei larici, le foglie ballerine dei pioppi, insieme all’erba lunga, gialla, coriacea, ripiegata su sé stessa come in un gesto di resa.
“Come sarà qui tra altri cinquant’anni?”, ha chiesto qualcuno.
Nessuno può saperlo, in realtà. Tutto dipenderà dalle nostre scelte o non scelte. Un prato sarebbe ancora ripristinabile, ma a che scopo? E per chi, poi? Il bosco che presto chiuderà ogni vuoto potrà essere gestito, per generare servizi a noi utili, magari un po' di legname, oppure lasciato alla sua naturale evoluzione. Ma lasciandolo chiudere del tutto, quali specie andremmo a sacrificare? Quali habitat perderemmo? Sappiamo, ad esempio, che queste fasce ecotonali, queste “vie di mezzo”, sono di fondamentale importanza per molte specie a rischio. E il paesaggio? Come muterà quel “paesaggio culturale” di estremo valore che rende le Alpi un ambiente unico al mondo?
Domande complesse, domande aperte, che generano malessere, agitazione, inquietudine.
Domande che, nonostante questo, dovremmo porci più spesso camminando nel bosco. Specialmente in questi “boschi che non c’erano”, in questi “prati che non ci sono più”.
Luigi Torreggiani è giornalista e dottore forestale. Collabora con la rivista “Sherwood - Foreste ed Alberi Oggi” e cura per Compagnia delle Foreste la comunicazione di progetti dedicati alla Gestione Forestale Sostenibile e alla conservazione della biodiversità forestale. Realizza e conduce podcast, video e documentari sui temi forestali. Ha pubblicato per CdF “Il mio bosco è di tutti”, un romanzo per ragazzi, e altre storie forestali illustrate per bambini. Per People ha pubblicato “Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano”, scritto a quattro mani con Pietro Lacasella.