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Alpinismo

Perché Cima Italia e Cima San Marco sono in Himalaya? Una storia ormai dimenticata di alpinisti che scalavano sulla “parola d’onore”

La vicenda ha inizio quando uno sconosciuto comando inglese decide di designare la località di Yol, sperduta nel distretto montano di Kangra, nel Nord dell’India, come sede di un a campo di prigionia per prigionieri di guerra catturati sui campi di battaglia africani

di
Chicco Magni
11 November | 18:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Disperse nel bel mezzo dell’Himalaya spuntano montagne chiamate “Cima Italia” o “San Marco”. Vette che superano i seimila metri che sulle mappe sono l’ultima testimonianza di una storia tutta italiana e ormai quasi dimenticata. Quella dei prigionieri di guerra italiani in India, diventati alpinisti ed esploratori sulla “parola d’onore”. Durante la seconda guerra mondiale ci sono gruppi di italiani che vagano per montagne alla ricerca di monti da scalare e valli da esplorare. Uno dei fenomeni più strani che la guerra abbia provocato.

 

La vicenda ha inizio quando uno sconosciuto comando inglese decide di designare la località di Yol, sperduta nel distretto montano di Kangra, nel Nord dell’India, come sede di un a campo di prigionia per prigionieri di guerra catturati sui campi di battaglia africani. Qui giungono centinaia di ufficiali italiani. Nel 1942 i prigionieri del campo raggiungono i 10.000 (ne abbiamo parlato QUI). Un gruppo di questi, sul finire del 1943, dopo la firma dell’armistizio, inoltra domanda per poter eseguire escursioni di qualche giorno in montagna sulla “parola” a rientrare nel campo nel termine stabilito.

 

Le passeggiate sono previste dal regolamento. I prigionieri si dimostrano così fermi nel rispettare la disciplina che le uscite che all’inizio erano di 5 o 6 giorni, arrivano fino a 45 giorni consecutivi senza mai che ci fosse un tentativo di fuga. Il Dhar Narwana è fra le prime cime che vengono scalate dalla più nota “squadra Pilla” guidata appunto da Gianni Pilla. Durante l’inverno fra il ‘43 e il ‘44 i “nostri” riescono a reperire alcune logore carte topografiche del Nord dell’India e mettono gli occhi su vette inviolate di seimila metri. La vita nel campo è durissima, gli inverni segnano i prigionieri italiani.


Ma per due anni ancora quella sarà la loro casa e dimostrano comunque lealtà. Nonostante la penuria di viveri e attrezzature, come piccozze e ramponi e che spesso vengono ricavati da quello che si trova attorno al campo, l’attività alpinistica continua per più di due anni. La squadra “Mamini” è una delle più attive fino al 1945, soprattutto nella zona del gruppo Parbati. Il 2 luglio di quell’anno una vetta ancora innominata di 6.163 metri, che domina tutto il Lahul occidentale, viene scalata per la prima volta e viene battezzata “Cima Italia”.

 

In ottobre i prigionieri italiani sono intenzionati a scalare il Deo Tibba (6.001 metri). Dalla valle di Malana risalgono i ghiacciai e il 16 ottobre tre alpinisti raggiungono una cima satellite che chiamano poi “San Marco”. Un’esperienza che termina con il ritorno a casa dei prigionieri dopo anni di privazioni, che ha comunque contribuito a una conoscenza della regione mai così vasta come in quel periodo e ha permesso di migliorare non solo le carte topografiche, ma anche la documentazione relativa alle popolazioni, alla flora, la fauna e anche la geologia. 

 

Per chi fosse interessato, ieri abbiamo pubblicato la prima parte del racconto. La trovate QUI

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