Sostituzione etnica, “antifascisti innominabili” e bugie spudorate: abbiamo perso la strada del Paese nato dalla Resistenza
Nell’idea di futuro della classe politica al governo si riflettono echi lontani d’un passato mai superato. In occasione del 25 aprile sarebbe bene rilanciare riflessioni che ci oppongano a modelli destinati a portarci solamente alla chiusura su noi stessi
TRENTO. Sono passati ormai sei mesi da quando il governo più a destra della storia repubblicana ha preso la guida del Paese e quale sia l’idea che ha del suo futuro traspare ogni giorno in comunicati, dichiarazioni e politiche ventilate o messe in pratica. In tutto ciò, in filigrana, possiamo leggerne quale sia anche l’idea del passato: per l’occasione c’è un passato da pubblicamente rinnegare, un altro parallelamente da rivendicare, un altro ancora da chiudere nel cassetto, così da inaugurare, finalmente, la tanto auspicata “pacificazione delle memorie”.
Questo modo di approcciarsi al passato certo non è una novità di questi mesi, bensì il frutto di un percorso decennale. Eppure nell’idea di “nazione” che ogni giorno rimbalza sui media attraverso le voci di qualche esponente governativo, locale o nazionale che sia, possiamo ritrovare echi familiari quanto inquietanti, parole d’ordine già sentite e slogan tristemente triti e ritriti: declino demografico, perversione della gioventù, chiusura in sé stessi, confini da difendere, sono tematiche che paiono riprodurre antichi schemi, le stesse soluzioni d’un tempo.
Nel giorno in cui si celebrano la liberazione del Paese dal nazifascismo e le radici antifasciste della nostra comunità politica, queste immagini del passato e del futuro, profondamente intrecciate, mostrano come sia urgente ora più che mai la necessità di trovarne altre da contrapporvi. Ed è nel difficile presente e nel più luminoso passato che ciò dev’essere fatto, al più presto, con ampio respiro, con lucidità e autocritica.
Sul perché la presidente del Consiglio, cresciuta nelle giovanili della “fiamma tricolore” (Movimento sociale italiano, fondato da reduci della Repubblica di Salò), si dimostri restia a nominare l’antifascismo – vedi le dichiarazioni in occasione dell’anniversario della strage delle Fosse Ardeatine – poco c’è da meravigliarsi; e basterebbe guardare al passato (e alle vetrine da collezionista) del presidente del Senato per non spargere effimera indignazione sull’affermazione dedicata ai “musicisti semi-pensionati” dell’SS-Polizeiregiment Bozen “vittima” dell’attentato di via Rasella.
A rendere possibili affermazioni del genere, infatti, non è solo la storia di chi le ha fatte, ma quel vocabolario sdoganato dalla politica intera – compresi molti di coloro che si considerano eredi dei partiti antifascisti – e imperniato sull’idea di una riconciliazione nazionale delle memorie, sulla “memoria condivisa” che a livello nazionale (QUI e QUI degli esempi) come a livello europeo (QUI e QUI degli approfondimenti) viene a più riprese auspicata, con tutti i danni del caso.
L’ “interventismo” crescente della politica nell’insegnamento e nella divulgazione della storia rappresenta inoltre un pericolo esiziale: non solo perché la storia, intesa come disciplina critica e analitica del passato, non può sottostare ad alcun vincolo dei dettami del politico di turno (vedi la comunicazione della storia dell’Alto Adriatico in Friuli-Venezia Giulia e Veneto, QUI l'articolo), ma anche perché l’identitarismo passa proprio da una sua manipolazione e falsificazione. Basti pensare agli attacchi condotti da diversi esponenti politici e associazioni di categoria a uno storico dell’alimentazione, Alberto Grandi, colpevole d’aver dimostrato che la tradizione culinaria nazionale, così come la conosciamo, tutt’altro è che un millenario portato del passato, ma un’invenzione di recente conio (QUI l’intervista) - colpevole cioè d'aver fatto solo il proprio lavoro di storico.
E qui arriviamo, proprio, all’idea di futuro, con tanto d’echi lontani d’inizio ‘900. Può il nostro Paese permettersi di ripetere discorsi sul declino demografico (senza proporre soluzioni di sistema sulle condizioni che impediscono ai giovani di avere figli), il tetto agli ingressi d’immigrati, la “sostituzione etnica”, la limitazione degli spazi di incontro dei giovani, la funzione rieducativa del carcere? Può il nostro Paese considerare sempre e solo la soluzione politica e giuridica della repressione?
L’idea di “nazione” che dalla lotta all’immigrazione clandestina alle politiche di cittadinanza viene promossa da questo governo non può che condannarci alla chiusura e a una lenta agonia – in contrasto proprio con quell’idea nata dalla Resistenza che immaginava una comunità nazionale aperta e inclusiva. Com’è possibile, per limitarsi a una sola questione, che quasi un milione di minori nati e/o cresciuti in Italia, quindi futuri cittadini italiani a tutti gli effetti, non abbiano il diritto alla cittadinanza? L’antifascismo di adesso, in un’Italia povera demograficamente e di idee, passa anche da qui.