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Il fascismo contro la pasta e l'idea che abbiamo della nostra tradizione culinaria lontanissima dalla realtà. Grandi: “La cucina italiana? Inventata dopo il boom economico”

Finito al centro di accese polemiche per il suo lavoro di scavo nelle tradizioni culinarie nazionali, il professor Alberto Grandi, autore di libri e fortunati prodotti di divulgazione, da tempo lavora per dimostrare come la cucina italiana sia in realtà una grande invenzione di recente conio. “Fino agli anni ’60 gli italiani mangiavano poco e male. Furono l’emigrazione negli Usa e l’industria a incidere sulla nascita della cultura gastronomica ora tanto apprezzata nel mondo”

Foto tratte dal web
Di Davide Leveghi - 22 aprile 2023 - 13:00

TRENTO. Divisi su tutto, litigiosi e arroccati nelle proprie piccole particolari storie patrie, su una cosa gli italiani sembrano disposti a unirsi (quantomeno nel confronto con gli altri popoli): il cibo. La tradizione culinaria è vanto del Belpaese, orgoglio da sfoggiare nel mondo, da custodire, difendere ed esportare, magari pure da contrapporre con malcelato senso di rivincita alla cucina d’Oltralpe. Immaginata come un percorso millenario e glorioso, questa tradizione non è però che un’ideologia, per dirla con Marx “un’illusione della coscienza”.

 

Ciò che consideriamo come un portato intangibile dei nostri avi non solo è frutto di contaminazioni dal resto del mondo, ma è nondimeno un’eredità piuttosto recente. “Tutto nasce quando gli italiani, passata la sbornia del boom economico, si dimostrarono incapaci di fare i conti con i nuovi modelli di sviluppo, preferendo rivolgersi al passato con posizioni critiche nei confronti della società dei consumi e nostalgiche dell’età rurale, a destra come a sinistra”, spiega Alberto Grandi, professore di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, autore tra gli altri del volume Denominazione di origine inventata, da cui è stato tratto un fortunato podcast (“DOI- Denominazione di origine inventata”, prodotto da OnePodcast e tenuto assieme al giornalista Daniele Soffiati).

 

“Il caso più vincente e paradigmatico di questa recente re-invenzione della tradizione è il parmigiano reggiano – continua – che io stesso ricordo nella mia infanzia avere un aspetto ben diverso. Fino a 50/60 anni fa era un prodotto imparagonabile a oggi e che solo grazie alla ricerca e all’innovazione ha registrato un progresso mostruoso. Per diventare quello che è ora il ruolo decisivo lo hanno avuto gli emigrati, per lo più parmigiani, negli Stati Uniti. Inventori del parmesan (ora al centro di accese reprimende come esempio di Italian sounding, cioè di ingannevole tentativo di promuovere un prodotto non italiano come se in realtà lo fosse, ndr), questi emigrati tornarono in Italia rilanciando il prodotto secondo i gusti e i modelli di consumo degli italiani, perfezionandolo e portandolo alla forma che ora conosciamo e apprezziamo”.

 

Povera e sovrappopolata, l’Italia nata nel 1861 certo non si caratterizzava per la ricchezza delle tavole della sua gente, costretta in molti casi a emigrare proprio per scampare alla fame. Ripetitiva e dannosa (basti pensare alla pellagra che tante vittime produsse anche in Trentino), la dieta della maggioranza degli italiani svoltò solamente in virtù del boom economico, che rese varia la scelta dei prodotti e più facile la loro conservazione. Come?

 

“Faccio sempre l’esempio dei calabresi che scoprirono l’uso della tavola solo negli Stati Uniti – riprende Grandi – una volta tornati, pretesero di sedersi a tavola, provocando i commenti infastiditi delle classi più ricche. Questo ci spiega, se vogliamo, quanto per re-inventare il rapporto degli italiani con la loro cucina sia stata importante l’emigrazione. Negli Stati Uniti gli italiani delle diverse regioni si conoscono per la prima volta, si scambiano le ricette, entrano in contatto con nuovi prodotti e consumi. Qui, ad esempio, si innamorano della pasta che fino a quel momento era consumata solo a Napoli e in minor misura in qualche altra area del Paese”.

 

E’ in America che la pasta diventa una bandiera degli italiani, che la consumeranno in gran quantità vista anche la facilità di conservazione garantita dalla tecnologia e dall’industria. Non è un caso che negli anni ’20 il fascismo contro la pasta abbia fatto la guerra, considerandola un’americanata estranea alle tradizioni dei nostri contadini”, prosegue.

 

Definita da Grandi “priva di legame con la realtà”, l’idea che abbiamo di cultura gastronomica italiana è tuttavia, ora più che mai, oggetto di una politica identitaria aggressiva ed escludente, sbandierata da partiti ed esponenti politici che ne hanno fatto l’ennesima frontiera di scontro fra “noi” e il resto del mondo. “Prendendo a prestito il concetto antropologico del cibo come linguaggio, possiamo dire che ogni popolo, come una propria lingua, abbia anche una propria cucina. Nel caso italiano, però, il tutto sembra esserci scappato di mano, creando una situazione imparagonabile ad altri Paesi nel mondo”.

 

Di fronte a politici che riempiono le bacheche dei social di foto di cibo, a ministri che promettono task force per controllare il rispetto delle “sacre ricette dei nostri nonni” (vedi Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura) e a organizzazioni di settore che conducono crociate contro la contraffazione dei prodotti nazionali, qualche studioso ha per l’evenienza coniato il termine “gastronazionalismo”.

 

E’ così che Grandi lo chiarisce: “Secondo la definizione che dà il mio collega e amico Michele Fino, per 'gastronazionalismo' intendiamo l’idea per cui l’identità nazionale vista attraverso il cibo non è fatta per unire ma per creare barriere. Nel nostro caso, tutto si basa su un preconcetto e cioè che se una cosa è italiana è migliore. È una forma mentale per cui la provenienza vale più della qualità”.

 

Entrati in questa prospettiva, di conseguenza, ogni contaminazione (base di ogni cultura, anche in ambito culinario) o variazione di una ricetta (dettata dai gusti o dalla libertà di chi quel piatto lo mangia) diviene motivo di scandalo, una perversione di una realtà considerata autentica solo in quanto immutabile. Giammai la panna o il prezzemolo nella carbonara, allora, né l’aglio nell’amatriciana. Il cibo è identità da conservare, da difendere strenuamente e in certi casi anche da contrastare – si pensi alle discussioni sugli insetti o la carne sintetica. Ora come in epoche buie del nostro passato nazionale, quando ad esempio la pastasciutta era considerato un nemico da estirpare.

 

“Il fascismo usava il cibo come elemento identitario in una maniera estremamente moderna. A parte la retorica autarchica, esso infatti costruì un mito dell’agricoltura e del cibo italiano legati a un passato aulico, soprattutto alla Roma antica. Il caso più tipico è il Marsala, vino inventato dagli inglesi, di cui il fascismo cancellò le memoria esaltandone invece una supposta origine antica. Un’origine che si voleva far risalire addirittura ai cartaginesi”.

 

“Questa re-invenzione la vediamo nelle etichette del vino. Quelle inglesi richiamavano alla modernità, parlavano di un angolo di Inghilterra nel Mediterraneo. Quelle d’epoca fascista riportano invece alle origini puniche o romane. Dopo il fascismo, le etichette avranno un’iconografia ancora diversa, con i carretti siciliani. Insomma, il regime interviene nell’ambito del cibo, re-inventando anche le fiere e le sagre”.

 

“C’è un esempio, a riguardo, che ha a che fare con un paesino del Mantovano. A Castel d’Ario, già nel XIX secolo, si organizza la ‘bigolada’, sagra in cui si mangiano i bigoli (una sorta di spaghettoni, ndr) con le sardelle. Durante il fascismo, questa sagra non si tiene più. La pastasciutta al regime non stava simpatica, era, secondo la retorica dei futuristi, un cibo ‘che rende pacifisti’, che appesantisce, contraria allo spirito di un popolo guerriero, la cui cucina deve essere frugale. La 'bigolada' venne così sostituita dalla festa del riso, altro prodotto tipico della zona. Una volta caduto il regime, però, la reintrodussero immediatamente. La pastasciutta, al centro anche della famosa mangiata organizzata dalla famiglia Cervi nel luglio ’43, si rivelerà uno straordinario simbolo politico dell’antifascismo”, conclude.

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