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Lo Stato dalla parte dei fascisti: dalle spedizioni punitive agli assalti alle città, i prefetti si schierano con lo squadrismo

Decisivo per la presa fascista del potere, l’appoggio di settori influenti dello Stato coinvolse anche le cariche dei prefetti. Tanti, infatti, furono coloro che tollerarono se non sostennero la violenza squadristica, rispondendo a un’ambiguità mostrata dai governi centrali. Prosegue, nell’anno della marcia su Roma , la rubrica “Cos’era il fascismo”

Di Davide Leveghi - 28 agosto 2022 - 09:57

TRENTO. Nel periodo che preparò la presa del potere fascista, la figura del prefetto, rappresentante del governo nelle città e nelle sue province, rispecchiò le contraddizioni e i limiti dello Stato liberale di fronte alle camicie nere. La gestione della sicurezza pubblica sul territorio, infatti, mostrò un netto sbilanciamento a favore della violenza squadristica, tollerata se non appoggiata perché considerata patriottica e a difesa dello status quo.

 

Emanazione periferica dell’esecutivo, fra il 1919 e 1922 il prefetto non poté che rifletterne debolezza e incoerenza (QUI un approfondimento). Nonostante svariati inviti da parte dei diversi presidenti del Consiglio che si avvicendarono in quei turbolenti anni a porre fine a ogni violenza politica, l’uso della forza da parte delle squadre d’azione fu tendenzialmente sopportato – se non apertamente supportato – dai prefetti, dimostrando l’imparzialità di settori non indifferenti dello Stato.  

 

Descrive così, lo storico Mimmo Franzinelli (in Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922), il contesto di quegli anni: “Il primo terreno su cui i prefetti furono messi alla prova riguardò l’attacco sferrato ai municipi amministrati dalla sinistra. Lo scioglimento dei consigli comunali ‘rossi’ fu conseguito con la forza e premiato dalla sostituzione dei sindaci (dimissionari o dimissionati) con commissari prefettizi. L’analisi statistica – estesa al periodo 1910-1926 – indica nel 1921 l’anno di massima ‘mortalità’ delle amministrazioni, con una concentrazione nell’Italia centrosettentrionale pari all’80,6%, percentuale diminuita l’anno successivo al 60,4”.

 

“La connessione fra sviluppo dell’attività squadrista e scioglimento degli enti locali è confermata dal dato del Mezzogiorno (13,7% nel 1921, 25,6 nel 1922, 35,2 nel 1923, 37,1 nel 1924 e 38,4 nel 1925), dove la violenza delle camicie nere si espresse con notevole ritardo. Gli squadristi si muovevano spesso sul filo della legge o fuori della legalità; ciò fu loro possibile grazie al comportamento di molti pubblici ufficiali (oltre a prefetti e sottoprefetti: magistrati, ufficiali dei carabinieri e dell’esercito, commissari delle guardie regie…) i quali consideravano i socialisti un grave pericolo per le istituzioni, mentre i fascisti, tutto sommato, rappresentavano un’espressione – sia pure irruente – di patriottismo e un’esigenza ‘d’ordine’”.

 

Accanto all’ambiguità dimostrata dai governanti nei confronti della violenza squadristica, altre cause possono essere trovate alla radice dello squilibrio con cui i prefetti gestirono l’ordine pubblico sul territorio. Lo stesso Franzinelli indica nell’adesione elettorale del movimento dei Fasci alla coalizione del Blocco nazionale (voluta dal presidente liberale Giovanni Giolitti) un elemento non indifferente per la derubricazione delle spedizioni punitive a semplice reato comune; escluse dalla categoria di reato politico, le azioni fasciste, condotte in grande stile e con eccezionale brutalità, passavano così in secondo piano. Ben differente, invece, era l’atteggiamento della autorità nei confronti dell’uso della forza da parte delle organizzazioni di sinistra.

 

Incapaci di far rispettare le disposizioni emanate, i governi si trovarono così a dover ricorrere – nei casi più eclatanti - all’allontanamento dei prefetti più compromessi col fascismo. Senza mezzi e uomini, i rappresentanti dello Stato più ligi al dovere non poterono d’altro canto che constatare l’impossibilità di fronteggiare l’illegalismo armato delle camicie nere, caratterizzato tra le altre cose da una grande mobilità fra i territori. Le squadre d’azione, infatti, tennero per tutta la durata della stagione squadristica un raggio d’azione particolarmente ampio, coprendo così anche i territori più periferici e “scoperti” dalla presenza fascista – si pensi alla Venezia Tridentina, dove le azioni squadristiche più rilevanti furono condotte grazie all’afflusso di fascisti provenienti da tutto il Centro-Nord (QUI e QUI un esempio).

 

Alcuni casi, a riguardo, possono aiutare a comprendere l’abbandono a cui furono lasciati i prefetti osservanti della legge. Su tutti il caso di Bologna ha dell’esemplare e spiega piuttosto bene quale fosse l’atteggiamento dell’esecutivo di fronte alle prove di forza delle camicie nere. Qui il prefetto Cesare Mori, protagonista di misure energiche contro la mobilità fra province delle squadre d’azione, il controllo fascista del mercato del lavoro e l’azione di crumiraggio antibracciantile, venne dapprima ostacolato da Bonomi – che gli tolse i poteri straordinari sull’ordine pubblico prima concessi – poi richiamato a Roma dal suo successore Facta.

 

A determinare il trasferimento di Mori intervenne in maniera decisiva l’azione spettacolare di migliaia di camicie nere, guidate dal ras Italo Balbo. Nel maggio 1921, dopo l’uccisione di un caposquadra in un assalto a una cooperativa, le squadre d’azione sfogarono la loro rabbia contro Camere del lavoro e sedi delle sinistre, giungendo a occupare il centro urbano e a tagliare le linee di comunicazione. Assediata la prefettura, Mori, insultato e minacciato – il coro che si levava dalla strada era “Mori, Mori, tu devi morire!” (QUI l’articolo) – tenne testa fino alla decisione di Facta di assecondare le richieste fasciste.

 

Da Mantova a Milano, nondimeno, le accorate richieste dei prefetti di dotare di maggiori mezzi l’apparato di sicurezza, così da poter fronteggiare adeguatamente la mobilità delle squadre – che spesso, tra l’altro, non disdegnarono l’utilizzo per i loro scopi dei mezzi pubblici – non ricevettero alcuna risposta. Anzi: numerose azioni contro i municipi amministrati dalle sinistre, specie nell’infuocata estate del 1922 (QUI l’articolo), si conclusero con l’affidamento da Roma delle città a dei commissari prefettizi, come richiesto dagli assedianti fascisti.

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