La nascita della dittatura: il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 e l’apertura della strada verso il totalitarismo fascista
Il 3 gennaio 1925 Benito Mussolini tenne di fronte alla Camera un discorso convenzionalmente considerato come l’inizio della dittatura. Da quel momento, infatti, il regime parlamentare, già profondamente scosso dalle violenze, venne progressivamente smantellato, aprendo la strada verso la costruzione del totalitarismo italiano. Prosegue la rubrica “Cos’era il fascismo”
![](https://cdn.ildolomiti.it/s3fs-public/styles/articolo/public/articoli/2021/12/muss3gennaio.png?itok=yGEEBdAR)
“Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai. Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il Fascismo, Governo e Partito, sono in piena efficienza” (dal discorso di Benito Mussolini di fronte alla Camera, 3 gennaio 1925)
TRENTO. Il 3 gennaio 1925 viene convenzionalmente indicato come il giorno in cui Benito Mussolini, con un discorso di fronte all’Aula della Camera, diede avvio alla dittatura fascista. Dalla Marcia su Roma al principio di quell’anno – terzo dalla rivoluzione fascista, secondo il conto delle camicie nere – passando per le diffuse violenze nel Paese, le elezioni del ’24, l’omicidio Matteotti, la secessione dell’Aventino, si era infatti consumata “l’anticamera del Ventennio”. Da quel momento, ogni indugio venne rotto ed i presupposti gettati dalla violenza fascista avverati.
“L’importanza del discorso – scrive lo storico David Bidussa nel fortunato Me ne frego – non è solo nella rivendicazione della responsabilità delle violenze, ma è soprattutto nel proporre e imporre, attraverso una costruzione retorica in cui apparentemente Mussolini «gioca in difesa», un nuovo ordine nazionale, sancendo la nascita della dittatura”. Così, dalla difesa contro le accuse di aver dato vita ad una “Ceka fascista” – la versione “nera” della polizia politica sovietica – alla denuncia dei propositi sovversivi e antinazionali delle forze politiche aventiniane, il capo del governo rovesciò il diffuso antimussolinismo determinato dall’omicidio Matteotti, imponendo il giro di vite al regime.
“Signori! Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere, a rigor di termini, classificato come un discorso parlamentare […] un discorso di siffatto genere può condurre, ma può anche non condurre ad un voto politico. Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti troppi. L’articolo 47 dello Statuto dice: «La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia». Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47. Il mio discorso sarà quindi chiarissimo e tale da determinare una chiarificazione assoluta”.
Con fare intimidatorio, il discorso del 3 gennaio 1925 si apre riallacciandosi idealmente a quello del 16 novembre 1922 (QUI l’articolo). Il Paese, a quel tempo, era stato appena travolto dall’atto supremo della “rivoluzione fascista”, la Marcia su Roma. Tramite un abile gioco fatto di violenza minacciata, prove di forza e trattative, il fascismo conquistava il diritto di formare un governo (QUI l'articolo). Per la prima volta di fronte all’Aula, il neopresidente del Consiglio Benito Mussolini vantava di aver scelto di risparmiare la Camera, evitando di trasformarla in un “bivacco di manipoli”. Un’ombra cupa, ad ogni modo, aleggiava sul Paese.
Nei mesi successivi, mentre la violenza squadrista continuava ad imperversare in tutta la penisola (QUI l’articolo), il nuovo governo formato da esponenti fascisti, popolari, liberali e nazionalisti impose riforme di stampo autoritario – Senato e Camera affidarono nondimeno i “pieni poteri” al capo del governo in materia fiscale e amministrativa - su tutte la legge Acerbo (1923). Modificando la legge elettorale, si stabilì che il partito più votato avrebbe ricevuto i 2/3 dei seggi. Il germe del totalitarismo era così stato gettato.
Scrive Emilio Gentile in Fascismo. Storia e interpretazione: “Per sua natura, il Partito fascista era incompatibile con il regime parlamentare; tutta la sua azione, dopo l’avvento di Mussolini al governo, fu diretta alla conquista del monopolio del potere, usando sia l’arma terroristica sia le riforme parlamentari. Rendendosi conto di ciò, fin dal 1923 alcuni antifascisti misero in circolazione per la prima volta, espressioni come ‘dittatura totale’ di partito, ‘spirito totalitario’, ‘Stato partito’, con le quali essi intesero definire la vocazione dittatoriale del Partito fascista, il metodo terroristico usato per imporre la sua diversità privilegiata di partito dominante, e la pretesa di convertire tutti gli italiani alla propria ideologia come una nuova ‘religione politica’, secondo la terminologia entrata in uso nei primi tempi del governo mussoliniano”.
“Sono io, o signori, che levo in quest’Aula l’accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo! Veramente c’è stata una Ceka in Russia, che ha giustiziato, senza processo, dalle centocinquanta alle centosessantamila persone, secondo statistiche quasi ufficiali […] Ma la Ceka italiana non è mai esistita. Nessuno mi ha negato fino ad oggi queste tre qualità: una discreta intelligenza, molto coraggio e un sovrano disprezzo del vile denaro. Se io avessi fondato una Ceka, l’avrei fondata seguendo i criteri che ho sempre posto a presidio di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia. Ho sempre detto, e qui lo ricordano quelli che mi hanno seguito in questi cinque anni di dura battaglia, che la violenza, per essere risolutiva, deve essere chirurgica, intelligente, cavalleresca. Ora i gesti di questa sedicente Ceka sono stati sempre inintelligenti, incomposti, stupidi”.
Il percorso che porta al discorso del 3 gennaio 1925 – e all’instaurazione della dittatura – seguì diverse fasi, non sempre facili per Mussolini ed il governo. Politica terroristica e azione governativa, in tutto questo tempo, procedettero a braccetto: non solo verso gli oppositori (vedi la strage di Torino, QUI l’articolo), ma anche verso le parti del Paese non ancora sottoposte al controllo fascista o dei suoi fiancheggiatori. Una dopo l’altra, le amministrazioni locali caddero; il Meridione, dove la penetrazione fascista era stata minore, a sua volta. L’afflusso del notabilato e degli approfittatori all’interno del Partito, nondimeno, sancì una profonda crisi, superata con le solide abilità equilibristiche di Mussolini.
In equilibrio sul filo del rasoio, il capo del Pnf fu infatti in grado di mantenersi saldamente alla guida degli eventi. Ogni proposito democratico contenuto all’interno del primo Statuto del Pnf fu rinnegato dalla fondazione del Gran Consiglio (QUI l’articolo), che al tempo stesso esautorò progressivamente l’autorità del Parlamento. Lo squadrismo, invece, venne inquadrato legalmente con la nascita della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Sfacciatamente, infine, Mussolini seppe sfruttare i metodi illegali per far tacere una delle voci più scomode dell’opposizione, quella del capo del Partito socialista unitario Giacomo Matteotti (QUI l’articolo).
“Tuttavia io continuo nel mio sforzo di normalizzazione e di normalità. Reprimo l’illegalismo. Non è menzogna. Non è menzogna il fatto che nelle carceri ci sono ancor oggi centinaia di fascisti! […] si di dice: il Fascismo è un’orda di barbari accampati nella Nazione; è un movimento di banditi e di predoni! Si inscena la questione morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia. Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!”.
Denunciati i brogli e le violenze delle elezioni dell’aprile ’24 (QUI l’articolo), stravinte dal “Listone” fascista, il socialista Matteotti venne assassinato dalla “Ceka fascista” (QUI l’articolo). Le sue ricerche, infatti, avevano aperto uno squarcio sul malaffare del governo, fra tangenti e una gestione quantomeno disinvolta dei conti pubblici. Il delitto, nondimeno, produsse grande emozione nel Paese, rischiando di allontanare dal fascismo i suoi più importanti sostenitori. Da parte sua, intanto, l’opposizione parlamentare decise per l’astensione dai lavori, proclamando la “secessione” (QUI l’articolo) e condannandosi così all’immobilismo.
Alle pressioni degli integralisti affinché si accelerasse l’eliminazione dei “sovversivi”, Mussolini rispose infine positivamente. Ed eccoci dunque al discorso del 3 gennaio, con cui – scrive ancora Gentile – “il fascismo diede inizio a una nuova fase di consolidamento e di ampliamento del proprio potere. La gestione della politica interna fu affidata a un ex nazionalista, Luigi Federzoni, ministro degli Interni dal giugno 1924, il quale attuò la politica repressiva contro i partiti antifascisti e assecondò la politica mussoliniana di contenimento dell’estremismo fascista”. Con il bastone e la carota, il “duce” seppe tenersi vicini i fascisti radicali, affidando la guida del partito al loro capo Roberto Farinacci. Determinante nell’imporre la disciplina nel Pnf e nel colpire le opposizioni, questi fu poi sostituito al principio del ’26 da Augusto Turati, più propenso ad assecondare la politica mussoliniana, riorganizzando il partito ed imponendogli l’epurazione dei più riottosi (QUI un approfondimento).
“Signori! Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il Fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area. Tutti sappiamo che ciò che ho in animo non è capriccio di persona, non è libidine di Governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la Patria”.
Tra il ’25 e il ’26 il regime parlamentare venne completamente smantellato. Le opposizioni vennero messe fuori legge, le libertà di associazione e stampa bandite, la pena di morte reintrodotta (QUI un approfondimento). Il capo del governo, nominato dal re e responsabile solo nei suoi confronti, divenne il potere supremo, a cui ministri e Parlamento erano subordinati. L’Italia fascista si impose nel mondo come il “laboratorio del totalitarismo”, inteso come un dominio caratterizzato da un “intrinseco dinamismo, che si esprime nell’esigenza di una rivoluzione permanente, di una continua espansione del potere politico e di una costante intensificazione del controllo e dell’intervento sulla società, per subordinarla al partito unico attraverso una rete sempre più estesa e capillare di organizzazione e di integrazione” (Gentile). Il cantiere per “l’uomo nuovo fascista”, per “il nuovo italiano”, subiva così una nuova decisiva accelerazione.