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“Fermare la Nazione sulla via della catastrofe”: l’impresa di Fiume come preludio della marcia su Roma

La cosiddetta “impresa di Fiume” rappresenta un evento centrale nella storia italiana del primo Novecento. Un ruolo decisivo, nondimeno, lo giocherà anche nella concretizzazione di progetti eversivi che porteranno alla marcia su Roma e all’avvento al potere del fascismo. Ne parliamo in questa nuova puntata di “Cos’era il fascismo”

Foto tratta da wikipedia
Di Davide Leveghi - 18 settembre 2022 - 10:34

Molta gente spasima per non poter andare a Fiume, ma io mi domando: non c’è più nessuno che conosca la strada di Roma? La requisizione delle armi – altro colpo sinistro tentato dal ‘porco ‘ ha dunque spogliato i cittadini di tutte le rivoltelle, di tutte le bombe a mano, di tutti i pugnali? Ce ne sono ancora. In quest’epoca straordinariamente dinamica, si entra oggi nelle carceri e si esce, domani, in trionfo” (dall’articolo “Il ministro della fogna” di Benito Mussolini, Il Popolo d’Italia, 2 ottobre 1919)

 

TRENTO. Esclusa dal Patto di Londra – con cui il Regno d’Italia aveva negoziato il suo ingresso in guerra a fianco dell’Intesa – l’appartenenza nazionale di Fiume infiammò l’immediato dopoguerra. Per i nazionalisti italiani, infatti, la città a maggioranza italofona sarebbe dovuta entrare di diritto nei confini del Regno, aggiungendosi ai diversi territori mistilingui, dall’Alto Adige all’Istria, annessi con la Grande Guerra.

 

Oggetto del contendere fra la stessa delegazione italiana alle trattative di pace, oltre che fra Regno d’Italia e Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, la questione di Fiume detonò definitivamente nel settembre del 1919. Il giorno 12, infatti, un gruppo di militari ribelli guidati dal poeta Gabriele D’Annunzio prese il controllo della città, proclamandone l’annessione all’Italia. Cominciava così una storia travagliata, risolta solamente nel gennaio ’24 con il trattato di Roma e l’assegnazione di Fiume al Regno d’Italia.

 

Nel mentre, la vicenda della città quarnerina riservò non pochi colpi di scena. Ai nazionalisti e agli interventisti di destra, infatti, nell’impresa s’affiancarono numerose altre anime, traversali all’arco politico. Numerosi furono gli interventisti di sinistra a partecipare attivamente ed entusiasticamente a un’esperienza, la cosiddetta Reggenza del Carnaro, che s’attirò perfino il sostegno di Lenin- non a caso, la Reggenza fu la prima autorità governativa a riconoscere la legittimità dell’Unione Sovietica, sconvolta in quel periodo dalla guerra civile.

 

Più che l’eterogeneità dei partecipanti e l’originalità dell’esperienza, ciò che interessa in questo articolo – nel solco di una rubrica, “Cos’era il fascismo”, dedicata alla nascita e all’avvento del regime – è la sua importanza in vista della marcia su Roma. In un’Italia attraversata da tendenze eversive, dove voci e progetti di sovversione si rincorrono fra gli ambienti conservatori, le classi dirigenti e larghe fette dell’esercito, l’impresa di Fiume concretizzò un primo fattivo tentativo di sovvertimento dell’ordine. Serviva, come scrisse nelle sue memorie (Gli antecedenti, lo spirito, le date della marcia su Roma, 1923) Alfredo Rocco, fra i più influenti giuristi del regime, "un atto risolutivo che fermasse la Nazione sulla via della catastrofe". 

 

A denunciare un certo disagio di fronte a quanto avvenuto nell’Adriatico, fu l’allora presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, inviso negli ambienti nazionalisti perché considerato simbolo della decadenza liberale e incapace di gestire la vittoria. Nel suo discorso alla Camera immediatamente successivo ai fatti di Fiume, additò D’Annunzio come responsabile di aver messo “il soldato contro la patria”, aggiungendo: “Quanto è avvenuto mi ha riempito di tristezza, ma anche di umiliazione, perché per la prima volta è entrata nell’esercito italiano, sia pure per fini idealistici, la sedizione”.

 

Mentre da sinistra i socialisti denunciavano la politicizzazione dell’esercito, da destra le vicende fiumane vennero viste in un’ottica ben diversa. Fiume, a detta del Popolo d’Italia e del suo direttore Benito Mussolini, rappresentava infatti il segno non tanto di una rivoluzione ma di una vera e propria guerra in atto ormai dalle “radiose giornate di maggio” del 1914, quando interventisti e neutralisti si scontarono in piazza sull’eventuale intervento italiano nel conflitto.

 

Il 24 settembre, Mussolini tinteggiava per il Paese un orizzonte infausto: “Quello che accade in questi giorni non è una ‘rivoluzione’ nazionalista, come si afferma nel foglio dei pussisti (cioè dei socialisti del cosiddetto Partito ufficiale socialista, nda) i quali sono fisiologicamente negati alla rivoluzione come il rospo è fisiologicamente e anatomicamente negato al volo”.

 

Non è rivoluzione borghese quella che travaglia oggi la nazione e non è nemmeno proletaria. È la rivoluzione di una parte della nazione contro un’altra parte. Dall’una e dall’altra parte della barricata, stanno mischiati insieme borghesi e proletari. Ciò che li accomuna, o li divide, è qualche cosa che sta al di sopra degli interessi delle classi o delle ideologie dei vecchi partiti. È la guerra”.

 

La guerra, questa volta civile, aveva già ormai preso forma appena concluso il conflitto. Numerosi erano stati gli episodi in cui le forze di pubblica sicurezza s’erano rese protagoniste di repressioni violente di scioperi e agitazioni operaie e contadine (QUI l’articolo), mentre da inizio anno aveva fatto la sua comparsa il germe dello squadrismo (QUI l’articolo), clamorosamente apparso sul palcoscenico nazionale con l’assalto alla sede milanese dell’Avanti! (QUI l’articolo).

 

Le terre orientali, sotto questo profilo, non poterono che rappresentare un terreno di scontro privilegiato fra forze nazionaliste e movimento operaio, per lo più attestato su posizioni di solidarietà fra nazionalità e di internazionalismo. Trieste, in particolare, era attraversata da consistenti moti antislavi, alimentati dagli ambienti più estremisti del nazionalismo italiano presenti anche in quell’esercito deputato a presidiare i confini fissati in sede di trattative di pace – tra i “battesimi del fuoco” del fascismo si ricorda non a caso l’incendio del centro culturale sloveno di Trieste Narodni Dom, avvenuto nel luglio dell’anno successivo (QUI l’articolo).

 

A inizio agosto, la città giuliana fu al centro di gravi fatti, scaturiti da pesanti scontri fra socialisti e carabinieri. Nazionalisti e arditi, aiutati dalle forze dell’ordine, assaltarono la Camera del lavoro, provocando sdegno in tutto il Paese. Trieste, “città redenta”, rispecchiava perfettamente la duplicità di un conflitto che opponeva i nazionalisti da una parte, le popolazioni non italofone e i socialisti dall’altra.

 

In questo incredibile laboratorio politico, dunque, cominciò a germinare il seme di quella che sarà la marcia su Roma. Il 2 ottobre ’19, Mussolini si interrogava sul Popolo d’Italia: “Molta gente spasima per non poter andare a Fiume, ma io mi domando: non c’è più nessuno che conosca la strada di Roma?”. Tale aspirazione, raffreddata dall’accettazione mussoliniana del Trattato di Rapallo (1920), con cui si istituiva lo Stato libero di Fiume, tornerà viva nei mesi a venire; e a renderla possibile, ci penserà la violenza squadristica.

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