“Non poteva che crollare”: trentasei anni fa il disastro di Stava spazzò via 268 vite
Alle 12.22 del 19 luglio 1985 il primo bacino di decantazione della miniera di Prestavel, sopra Stava, cede, travolgendone un secondo più a valle. L’enorme colata di fango e detriti, lanciata a 90 chilometri orari, cancella 268 vite, spazzando via ogni cosa
TRENTO. Crollato l’argine del primo bacino, il secondo non resse all’urto. Erano le 12.22 del 19 luglio 1985, quando una massa di acqua, fango e sabbia di circa 180mila metri cubi cominciò a scendere verso valle ad una velocità di 90 chilometri orari. Tutto ciò che si trovava sulla sua strada fu spazzato via.
La valle di Stava, d’altronde, era stata da secoli sfruttata dal punto di vista minerario. Fin dal XVI secolo era stata utilizzata per la produzione di galena argentifera, mentre dagli anni Trenta del ‘900 si era cominciata ad estrarre la fluorite, minerale utile nella fusione dell’alluminio. Nel dopoguerra le miniere erano state a quel punto prese in gestione dal gruppo Montecatini, divenuto poi Montedison dalla fusione con la storica azienda energetica.
Al momento del disastro, però, la miniera di fluorite sul monte Prestavel era passata per le mani della concessionaria bergamasca Prealpi mineraria. Più volte, dalla fine degli anni ’70, era stata gestita da diverse realtà, tra cui l’ente pubblico Egam (Ente gestione attività minerarie) ed Eni. Alcuni di questi soggetti, oltre ai responsabili della costruzione e della gestione del bacino superiore, dei direttori della miniera e di alcuni dirigenti della Provincia di Trento, vennero infine condannati per i reati di disastro colposo e omicidio colposo plurimo.
“Non poteva che crollare”, era stato il commento della commissione ministeriale nominata per indagare sul disastro e coadiuvata dai periti del Tribunale di Trento. La catastrofe, infatti, come emerse successivamente non poteva che essere annunciata. Troppo gravi erano state le omissioni, i rischi presi ai danni della popolazione che viveva nella piccola valle ai piedi della miniera, popolata d’estate da diversi turisti, anche stranieri.
Il primo bacino di decantazione era stato costruito nel 1961, mentre il secondo prese forma ben otto anni dopo. Tra questi, l’argine era parso sin da subito come troppo pendente, tanto che il Comune di Tesero, sotto cui rientrava la giurisdizione dell’abitato di Stava, nel 1974 aveva chiesto conferme sulla stabilità della discarica. Il Distretto minerario della Pat, tuttavia, aveva incaricato della verifica la stessa società concessionaria, la Fluormine, appartenente sia a Montedison che ad Egam. L’esito delle indagini, dunque, fu positivo: nonostante si fosse a conoscenza della precarietà dei bacini, ci sarebbe potuto essere il via libera necessario per il loro accrescimento.
Una volta che l’enorme massa di fango raggiunse la confluenza con l’Avisio, concludendo la sua corsa, l’aspetto della valle era divenuto apocalittico. Gli alberghi, le case, la vegetazione, tutto era stato spazzato via, ricoperto da una melma densa e mortifera. Lanciato immediatamente l’allarme, la macchina dei soccorsi prese avvio con l’arrivo dei vigili del fuoco fiamazi. La violenza dell’inondazione, tuttavia, finì quasi per vanificare l’efficientissimo lavoro dei soccorsi, che estrassero dalle macerie ben poche persone rimaste ancora in vita.
Le ore, i giorni e le settimane a venire furono un dolorosa prolungamento della tragedia. Il numero esatto delle vittime fu ricostruito con certezza solamente a un anno di distanza, nell’impossibilità di conoscere con certezza chi si trovasse in quel momento nella zona travolta dalla colata di fango e detriti e di riconoscere con certezza l’identità di tutti i corpi estratti. Non a caso tantissime persone, non riconosciute, furono oggetto di una dichiarazione di morte presunta.
La macchina dei soccorsi, come detto, fu pronta, efficiente e straordinariamente grande. Furono oltre 18mila le persone impegnate per settimane a scavare, usufruendo di un’impressionante mole di mezzi. Nella palestra della scuola di Tesero, intanto, cominciava il pietoso corteo di familiari delle vittime, giunti in Val di Fiemme per riconoscere i propri cari, spesso irriconoscibili. Molte delle vittime furono poi sepolte nei cimiteri dei luoghi d’origine, ben 64 diversi camposanti sparsi per la penisola. La ferita di Stava, con il suo portato di dolore causato dall’anteporre il profitto all’uomo e all’ambiente, trovava così luogo in tutto il Paese.