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Mattarella e Pahor, una stretta di mano e un passo avanti verso la convivenza. Quando le istituzioni danno il buon esempio

Nel giorno dell'anniversario del rogo del Narodni Dom, con cui gli squadristi diedero alle fiamme il Centro culturale sloveno a Trieste, i presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella e della Repubblica slovena Borut Pahor si sono tenuti per mano nell'omaggio delle vittime dell'odio interetnico di entrambe le nazionalità. Il gesto storico non può che dare il buon esempio per la costruzione della convivenza e per il superamento del nazionalismo

Di Davide Leveghi - 14 luglio 2020 - 12:12

TRENTO. Una visita al Narodni Dom, dato alle fiamme dai fascisti 120 anni fafu il gesto simbolico più significativo dell'atteggiamento del fascismo e del nazionalismo italiano verso le minoranze inglobate nel Regno con la Grande Guerra, punto d'inizio della repressione anti-slavaed il risarcimento della comunità slovena, una stretta di mano davanti al monumento alla foiba di Basovizza e al cippo, lì vicino, con cui si ricordano 4 giovani antifascisti di lingua slovena uccisi dal regime per un attentato al giornale triestino del regime.

 

Ci sono gesti, la maggior parte delle volte, che se giungono dalle istituzioni hanno l'effetto di un buco nell'acqua. Le onde dell'impatto si diramano, lo sciabordio sembra creare delle onde, ma tutto quel movimento finisce poi per tornare alla situazione di partenza: la calma piatta. L'assenza di genuinità di questi gesti, la retorica pomposa e l'incapacità di toccare le corde più profonde delle persone neutralizzano la portata di queste azioni, rendendole sostanzialmente vane.

 

Questa volta, nelle strette di mano fra i presidenti della Repubblica italiana Sergio Mattarella e della repubblica slovena Borut Pahor, però, c'è qualcosa di diverso: c'è l'umanità e la sensibilità nei confronti dell'altro, il gesto di distensione e di riconoscimento verso le sofferenze che la storia delle terre adriatiche ha lasciato negli ultimi secoli, specie in quel '900 da cui ancora non riusciamo ad affrancarci, pesati dal fardello del nazionalismo, che accieca e rende incapaci di comprendere l'altro, il proprio vicino, il proprio fratello.

 

La bellezza del gesto di cui questi due presidenti si sono resi protagonisti non ha nulla a che fare con i commenti e le vacue parole seguite, di cui i mezzi di comunicazioni ed i politici si sono appropriati, finendo poi spesso per ricadere nuovamente nei pregiudizi nazionalisti e nel vittimismo che li permea. Nel racconto della giornata di ieri, lunedì 13 luglio 2020, la storicità della giornata non si misura certamente solo per quella mano tesa dal presidente italiano all'omologo sloveno o per la prima volta di un presidente slavo sul luogo simbolo delle “foibe”.

 

(Questo il commento di Eric Gobetti, storico torinese del fascismo e della Resistenza, vittima alla vigilia del Giorno del Ricordo 2020 di un vergognoso attacco da parte dei militanti neofascisti e della destra per il suo lavoro rigoroso di demistificazione delle vicende avvenute sul confine orientale tra il 1943 e il 1945)

 

È la reciprocità a rendere questa giornata speciale. Se per la prima volta infatti un presidente di un Paese dell'ex Jugoslavia ha compiuto un gesto distensivo di fronte ad una memoria ancora viva e foriera di conflitto, dall'altra per la prima volta un presidente della Repubblica italiano ha omaggiato la minoranza slovena avanzando le scuse per uno degli episodi più neri della storia novecentesca nazionale: quel rogo, avvenuto il 13 luglio 1920, con cui lo squadrismo fascista – erede designato del più bieco nazionalismo italiano – diede alle fiamme i già flebili sogni della debole Italia liberale di rispettare le minoranze etniche, assestando il colpo definitivo alla convivenza in Venezia Giulia.

 

Nell'omaggiare il Monumento agli Eroi di Bazovica – cioè il cippo con cui si ricordano Ferdo Bidovec, Fran Marušič, Zvonimir Miloš e Alojzij Valenčič, quattro antifascisti di etnia slovena fucilati nel 1930, dopo l'attentato compiuto ai danni della redazione del giornale fascista “Il Popolo di Trieste” e diventato simbolo della lotta della minoranza slovena contro il regime – inoltre, le massime autorità dei due Paesi hanno riconosciuto in maniera unanime l'opposizione ad un'ideologia, quella fascista, totalitaria e liberticida, ribadendo come quella antifascista sia una battaglia dove non esistono differenze di lingua o cultura.

 

L'importanza di coltivare la memoria storica – testimoniata anche dalla presenza, nella consegna del nuovo centro per la minoranza slovena, dello scrittore Boris Pahor, autore del capolavoro Necropoli (sulla propria esperienza in un campo di concentramento nazista) e testimone oculare, allora di 7 anni, dell'incendio del Narodni Dom – non può che beneficiare di gesti del genere, con cui ci si riconosce reciprocamente e si avanza nella costruzione delle relazioni. D'altra parte, rimane necessario coltivare anche la storia, affinché comprensione, contestualizzazione e ricerca della verità (criticamente e con metodo scientifico) possano finalmente penetrare nel senso comune delle persone, togliendo il terreno a facili atteggiamenti di colpevolizzazione dell'altro e di vittimismo, utili solo ad alimentare odi antichi e ataviche paure.

 

Sulle foibe, infatti, la narrazione pubblica italiana rimane prigioniera di miti e storture – sul tema noi de ildolomiti.it avevano, in occasione della Giornata del Ricordo, pubblicato diversi contributi di storici sia di lingua italiana (Raoul Pupo, ex presidente dell'Istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia) e di lingua slovena (Jože Pirjevec). QUI (Pupo), QUI (Pirjevec) e QUI (Giorno del ricordo) i contributi – alimentati da una politica incapace di affrancarsi dal nazionalismo o volutamente desiderosa di farci leva. Mattarella e Pahor, con questo gesto, ci hanno insegnato che quella retorica vacua e dannosa può essere superata.

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