Il mito assolutorio degli "italiani brava gente" tra consenso e rimozione. Antonelli: "Dal fronte arriva l'immagine di combattenti feroci"
Il mito del popolo italiano come più buono, compassionevole e solidale è tanto radicato nella coscienza collettiva italiana da riflettersi trasversalmente al di là di ogni barriera ideologica. Questa idea però nacque solo posteriormente e non rappresenta affatto l'immagine che i soldati davano di sé stessi dal fronte. A riguardo lo storico Quinto Antonelli dialogherà con l'Anpi in un incontro che si terrà giovedì 5 dicembre
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TRENTO. Ogni popolo o comunità si nutre di miti fondativi o formativi. Narrazioni del passato spesso acritiche, contraffatte, amnesiche, che sostanziano e identificano le rappresentazioni di un gruppo. Ampiamente studiato dalla storiografia - da Del Boca a Focardi, da Rochat a Bidussa – il mito degli “italiani brava gente” è radicato nella coscienza collettiva italiana in maniera trasversale, non limitato all'ambito nazionalistico ma penetrato perfino a sinistra, se è vero che il grande regista Mario Monicelli, presentando il suo ultimo film Le rose del deserto, ambientato in Libia, affermava: “Noi siamo gente generosa, che non si perde mai d'animo. Riuniti in esercito gli italiani sono sempre gli stessi: positivi, felici, ottimisti e se devono morire muoiono senza farla tanto lunga. Non vogliono essere né eroi, né missionari”.
Il “colonialista” buono italiano necessita di un altro cattivo, inglesi o francesi che conquistarono il mondo e lo mantennero soggiogato con la violenza e la brutalità. Il “soldato” buono italiano necessita di un alter ego, lo spietato tedesco, per eleggersi a combattente glorioso nelle fasi più drammatiche e sminuirsi nelle degenerazioni guerresche del conquistatore. All'occorrenza vittima – della proverbiale incapacità dei superiori, del fato o dello straniero – all'occorrenza eroe, l'italiano mantiene la sua umanità, civilizza con la “carota” e mai con il bastone, con la comprensione e mai con la coercizione.
E allora sotto il tappeto della coscienza nazionale lo sporco s'accumula. Nessun accenno all'utilizzo di gas proibiti nelle “avventure” coloniali dell'Africa Orientale e della Libia – riconosciuto ufficialmente dall'esercito italiano solo negli anni '90 – nessun ricordo dei campi di concentramento il Libia, Eritrea o Jugoslavia – in cui perirono di stenti migliaia di persone - nessun riferimento ai massacri compiuti in Grecia, Montenegro o Albania – con, di contro, il vittimistico accento posto sulle uccisioni di italiani da parte dei partigiani jugoslavi dal '43 al '45, con annesse manipolazioni dei numeri.
Omissioni e rimozioni, gli italiani si autoassolvono sul banco del tribunale della storia, la scampano nel secondo dopoguerra senza che non venga estradato alcun criminale di guerra – nonostante le centinaia di richieste avanzate dagli Stati aggrediti, tra cui Badoglio – si autoconvincono che le stragi compiute nei due anni di guerra civile siano opera del solo occupante – disumano e crudele – tedesco – vedasi il ritrovamento nel 1994 del cosiddetto “Armadio della vergogna”. Il mito affonda le radici nella storia ma si costruisce a posteriori.
“Il mito dell'italiano buono, solidale e soccorrevole – spiega lo storico Quinto Antonelli – nasce molto dopo agli eventi della guerra, negli anni '60 e '70. Si trova nella memoria e nella memorialistica posteriore, nelle riscritture, non certo nelle lettere e testimonianze coeve, in cui la rappresentazione che i soldati danno di sé è ben altra. Lì non si vede alcun mito della bontà ma della guerra fatta da combattenti, fatta da chi pensa di fare il proprio dovere”.
Dal teatro di guerra montenegrino, dove sotto il comando del generale Alessandro Pirzio Biroli – richiesto nel dopoguerra come criminale di guerra da parte della Jugoslavia – gli italiani conducono operazioni contro i partigiani, giungono missive tutt'altro che aderente al mito dell'italiano più umano e benevolo degli altri popoli. “I soldati trentini presenti in Montenegro e appartenenti ad esempio alla divisione Pusteria si rappresentano come feroci, capaci di domare i ribelli e i traditori – continua – dimostrano consenso a questa guerra, dunque. Nei teatri balcanici arriveranno a combattere fino a 600mila italiani, 3 volte tanto quelli che rimarranno in Italia”.
La guerra d'aggressione si riflette nel linguaggio utilizzato nella corrispondenza con la famiglia, le parole d'ordine, la propaganda, l'indottrinamento di vent'anni di regime si respirano nelle lettere che giungono tra mille peripezie a casa. “C'è una differenza sostanziale – assicura Antonelli – tra le parole dei figli impegnati nella seconda guerra e quelle dei padri combattenti in divisa austro-ungarica nella prima. Gli effetti della propaganda appaiono molto minori, si nota una certa conservazione di una coscienza personale, manca quell'obnubilamento da parole d'ordine che il regime fascista applica efficacemente. Nelle lettere degli uomini della Grande Guerra ci sono riflessioni contrarie al conflitto, apertamente antimilitariste. In quelle anche più intime della Seconda, invece, rimbalzano gli slogan di Mussolini, si percepisce come la propaganda di vent'anni abbia forgiato delle generazioni che si sentono guerriere”.
Di tutto ciò Quinto Antonelli parlerà nell'incontro organizzato nella sede dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia di viale degli Olmi 26 a Trento, giovedì 5 dicembre alle ore 20.